Miklós Jancsó, Maestro del piano-sequenza e della storia ungherese, a cent'anni dalla nascita

Cento anni di Miklós Jancsó

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Il 27 settembre di cent'anni fa nasceva a Vác (Budapest), il regista ungherese Miklós Jancsó. Laureatosi nel 1951 all’Accademia d’Arte Teatrale e Cinematografica, esordisce nel 1958 con il lungometraggio A harangok Rómába mentek (Le campane sono andate a Roma). Nel 1966, I disperati di Sandór, sui moti del 1848 guidati da Sándor Petőfi lo fa conoscere al pubblico internazionale come l’esponente di punta della nouvelle vague ungherese. Jancsó ha già messo a punto i tratti principali del suo stile e i suoi temi: uso del campo lungo, complessi piani-sequenza che contengono masse, individui, coreografie, al servizio della disamina della brutalità del potere e della celebrazione del desiderio di libertà. Tra i suoi film più famosi, L’armata a cavallo (1967), Silenzio e grido (1968), Agnus dei (1971) Salmo rosso (1972), Elettra (1974), Rapsodia ungherese (1979). La storia d'Ungheria, come rappresentativa di quella più ampia del resto del Continente europeo, è il principale ambito di interesse delle opere di Jancsó, che la analizza rifuggendo con decisione i canoni del realismo socialista. In occasione dell'uscita dei film della sua “Seconda trologia” (Agnus dei, Salmo rosso, Elettra), Roberto Escobar e Vottorio Giacci scrissero per «Cineforum» (n. 159, novembre 1976) un'approfondita analisi del cinema di Jancsó, di cui qui riproponiamo alcuni brani.


Miklós Jancsó
I riti della rivoluzione
La morte, la resurrezione, il futuro

La freddezza con cui Jancsó mostra gli eventi, il suo atteggiamento distaccato nei confronti della ferocia di un potere che lacera ogni possibile elemento positivo dell'animo umano, è il risultato della posizione logica e razionale di chi intende la violenza storica non in modo emotivo, ma come conseguenza di una precisa e “innata” caratteristica del potere stesso, come risultato di rapporti determinati dalla divisione in classi della società. Nella essenzialità dello stile, che trasforma il soggettivo in oggettivo, è sempre presente la sostanziale differenza che intercorre tra la violenza reazionaria e quella rivoluzionaria. Si pensi a L'armata a cavallo: mentre la violenza “bianca” è fredda, logica, spietata nella sua necessità inderogabile di porsi come strumento di sopraffazione di una classe sull'altra per la conservazione del potere, quella “rossa” è lo straripare di una viva disperazione, giustificata dai secoli di patimento subiti dalle masse e che l'acuirsi delle contraddizioni ha fatto esplodere.

Nel mondo di Jancsó non c'è spazio per l'emozione: la crudeltà delle leggi che regolano i rapporti sociali si è talmente istituzionalizzata da poter apparire quasi come il “dato naturale” dell'esistenza, ed il regista è spinto alla fredda constatazione, alla silenziosa esposizione di una realtà che è “statica” solo quando l'alternativa rivoluzionaria non ha la forza di porsi in dialettico antagonismo. I personaggi, privi di palpiti umani, quasi sempre silenziosi, vittime o aguzzini di una tragedia universale che li avvolge in un tempo immobile nel suo eterno ripetersi, sono emblemi muti più che esseri viventi, tragiche pedine di un gioco più grande.

In questa spietata geometria di rapporti antitetici, dove la volontà dell'individuo è coartata, schiacciata, impossibilitata ad esprimersi, altro non resta che essere, a seconda dei casi, oppressi od oppressori. Questa tragica bipolarità deriva dalla radicalizzazione operata coscientemente da Jancsó al fine di evidenziare, attraverso un processo rappresentativo che appare irrazionale (non leggibile naturalisticamente), la logica conseguente dal dominio di classe sull'uomo. L'interscambiabilità dei ruoli non è, così, assurda: al contrario, è la necessaria conclusione di una società che modella l'uomo secondo la posizione che gli è dato occupare nel processo dialettico reazione/rivoluzione. La mancanza di coscienza e l'interscambiabilità dei ruoli sono figurazioni poetiche, emblematiche di una analisi politica condotta sul reale della storia ungherese: l'incapacità di raggiungere una effettiva coscienza collettiva che unisca tutto il popolo, senza cedimenti, contro la classe degli oppressori, è la causa della sconfitta.

Tra questi due poli il passaggio non è delegato alla libertà o alla “volontà”, ma dipende da condizioni oggettive. Il soggetto umano è reificato a tal punto che non gli è più concessa neppure la libertà di odiare, e la sua azione non è il frutto di scelte coscienti nel senso prima indicato, bensì il risultato di uno stimolo esterno derivante da una collocazione sociale a cui è tenuto ad ubbidire, “meccanicamente”, compiendo gesti ed atti estranei alla volontà. Mancando un sentimento, manca anche la coscienza, e quindi la volontà dell'atto: tutto appare come un “rito” svuotato di un suo significato preciso ed immediato, e ciò porta all'individuazione di quella “significazione mediata” che costituisce l'oggetto della ricerca del regista: la rappresentazione della logica disumana del potere.

All'interno di una riflessione sulla storia, di cui il regista preferisce cogliere solo gli “spunti” per esporre “concetti”, il rapporto che si crea tra gli individui è di una ferocia disperata e rassegnata. L'oppressore gioca con il suo perseguitato, gustandone passo per passo l'agonia, umiliandolo con una serie di imperiosi quanto superflui comandi e di secchi ordini militari. Gli spostamenti avanti e indietro, le corse, i ritorni, le illusioni della fuga e della libertà rendono ancor più disperata la prigionia; il tono a volte di eleganza e di gentilezza formale con il quale vengono dati gli ordini di morte maschera una violenza ancor più tremenda.

Da Venti lucenti (sul deterioramento della rivoluzione che diventa potere) in poi Jancsó ha sviluppato altri argomenti: quello dell'analisi del mito dell'eroe in Scirocco d'inverno, o quello del potere religioso in Agnus dei. In Salmo rosso finalmente il “poeta dei vinti” può cantare anche la sua “fede” nella vittoria della rivoluzione, la cui dialettica contraddittoria è il tema di Elettra, rilettura marxista del mito classico. Nella Seconda trilogia – Venti lucenti, Agnus dei, Salmo rossoJancsó passa decisamente dall'uomo alla classe. Attraverso·il referente del “gruppo”, nel quale si esprime il rapporto contraddittorio dell'indiduo non solo con la classe avversaria ma anche all'interno della propria, Jancsó aveva accentuato la dinamica della violenza esercitata dal potere sull'uomo. Ora al “gruppo” dei ribelli di Sandor si sostituisce la comunità contadina di Salmo rosso, che è la classe nella sua totalità, protagonista diretta della storia e antagonista della classe dominante.

Nel “gruppo” prevale il momento dinamico dell'azione aggregatrice o disgregatrice, l'una omogenea all'altra, in quanto entrambe si riferiscono ad una identica tensione centrifuga dalla classe, tensione che viene combattuta al suo interno in quanto è in essa operante (da questa bivalenza-omogeneità viene, appunto, l'interscambiabilità dei ruoli). L'aggressione è l'avanguardia, la disgregazione è il momento regressivo della tensione rivoluzionaria.

Fintanto che la classe vive questa bivalenza senza averne coscienza, cioè senza avere coscienza di sè come classe, si ha la sconfitta: è questo l'aspetto dominante della Prima trilogia (I disperati di Sandor, L'armata a cavallo, Silenzio e grido). Nel procedere della sua analisi, Jancsó rappresenta nel proprio cinema la progressiva acquisizione di questa coscienza fino a giungere, con Salmo rosso, alla classe, da intendere come totalità per definizione storica, cioè creata come totalità dalla storia. Il mezzo stilistico per la comprensione di questo processo è il passaggio dal pessimismo della ragione all'ottimismo della volontà (l'“utopia” rivoluzionaria di Salmo rosso e di Elettra).

Passando dal bianco e nero – espressione cromatica della sofferenza impotente – al colore, Jancsó crea il luogo visivo della certezza e della gioia nella rivoluzione, spazio dell'immaginario dove la nudità non più imposta è liberatoria e non oppressiva e l'interscambiabilità dei ruoli si muta nella magica realzione morte/resurrezione. I lunghi silenzi delle opere precedenti – il silenzio è il canto della sofferenza, tragico sentimento della divisione – si riempiono delle musiche, delle canzoni popolari, del folclore delle feste contadine. Il canto del silenzio cede al coro, esaltante momento di lotta, coreografia dell'unione nella rivoluzione.

L'ideologia della forma. La forma dell'ideologia

«I significati politici e filosofici non possono che scaturire», dice Jancsó «da uno stile». Stile e tematica sono così intimamente compenetrati da risultare impossibile un'evoluzione che non implichi lo sviluppo di entrambi. Se è vera per ogni autore l'identità tra forma e ideologia – Marx parla di identità tra linguaggio e coscienza –, essa vale a maggior ragione per Miklós Jancsó.

Il cinema di Jancsó è caratterizzato innanzitutto dalla mancanza di figure psicologicamente risolte, ma questa assenza di psicologia si trasforma in una “filosofia delle reazioni umane”. Infatti la negazione del personaggio è scelta espressiva e ideologica che rifiuta un modulo narrativo che appartiene alla concezione borghese dell'arte, insieme con l'intreccio che è esaltazione della funzione (o finzione) dei personaggi.

La negazione del personaggio si risolve nella creazione di “schemi” che diventano il riferimento di ogni rapporto: lo schema principale è lo spazio, nella duplice valenza di “spazio della repressione” e di “spazio della rivoluzione”. Lo spazio della repressione, nella Prima trologia, è un “universo della totale negatività” ricreato attraverso un microcosmo: in un gruppo umano isolato in un contesto ambientale vasto e soffocante, si svolge un discorso sulla violenza e sul potere, mediante l'uso di costanti stilistiche e di processi di ripetizione.

La vastità dello spazio (la piatta campagna ungherese) traduce in segno l'angoscia dell'uomo perennemente allo scoperto e in balìa del nemico immanente, che può giungere da qualsiasi lato e dal quale non si può sfuggire in alcun modo; l'uso del campo lungo o lunghissimo rivela l'inanità del correre e del nascondersi, evidenzia la piccolezza della figura umana nel contesto di uno spazio-sistema tanto più vasto e opprimente. Dalla scelta stilistica del campo lunghissimo, che porta a universalizzare l'ambiente nel quale gli individui si muovono, nasce la rappresentazione di un potere totalizzante su tutta la superficie fisica e morale dell'uomo e che non ammette angoli e momenti di libertà alcuna.

Lo spazio della rivoluzione, soprattutto in Salmo rosso, è il luogo della creatività e della gioia, del “gioco” che è “rappresentazione”. Se quello della repressione è lo spazio della morte, questo della rivoluzione è lo spazio della vita contro la morte: le resurrezioni, possibili perchè non si riferiscono a “personaggi”, esprimono la simbologia dell'“universo della positività” e del trionfo della fantasia creativa.

Il linguaggio di Jancsó si sviluppa in grandi blocchi narrativi, i piani-sequenza, in cui tutto un avvenimento è girato senza stacchi dall'inizio alla fine secondo un criterio di continuità temporale. Attraverso il piano-sequenza, che per Jancsó «ha le cadenze della vita», si traduce in immagini sia la dialettica della storia che il metodo dialettico di leggerla. Le contraddizioni che sono all'interno del piano-sequenza non sono opposizioni, non sono tra loro divise dall'intervento interruttivo del montaggio, ma sono passaggi nel medesimo processo. Il montaggio, così eliminato, non viene comunque annullato, poichè viene ricreato come mezzo di interpretazione della realtà all'interno dell'inquadratura, attraverso l'uso appropriato di piani, spazi, volumi. Nel piano-sequenza la cinepresa non registra dall'esterno la totalità neutra e piatta della scena, ma entra in essa e in essa segue un percorso che è il significato e dunque è il cinema.

Il problema generale della rappresentazione jancsiana consiste nella trasfigurazione del reale, che si può definire simbolica, anche se l'autore sostiene di non comunicare simboli. Rispetto alla sua prima produzione, in cui la simbologia era nella totalità del discorso più che nei singoli elementi espressivi, nei film più recenti Jancsó ha portato a un maggior livello di astrazione simbolica le singole componenti figurative. Ai cavalli che passavano all'orizzonte e che attraversavano al galoppo lo “spazio”, alla frusta e alla pistola come simboli evidenti del potere, agli schieramenti geometrici delle truppe in armi e alle corse dei gruppi di rivoluzionari della Prima trilogia, subentrano i nastri colorati che portano il rosso nel cuore dello schermo, il sangue delle ferite che si muta in purpuree coccarde di lotta, le colombe e il pavone, i canti, le coreografie che sono danza di popolo, le resurrezioni come riscoperta felice della rivoluzione e la nudità come riscoperta gioiosa del corpo.

La diversa accentuazione nella simbologia trae origine dal fatto che, mentre nella Prima trilogia Jancsó parlava della dinamica della repressione in atto, nella Seconda progressivamente passa alla prefigurazione, all'immagine del futuro, dove il simbolo necessariamente deve essere meno direttamente collegato al reale. I contenuti ideologici vengono trasfigurati in pura forma, ottenuta con soluzioni di rarefatta plasticità e di affascinante astrazione, che anticipano l'estetica della rivoluzione.

Il materialismo estetico di Jancsó, a differenza del realismo socialista che erroneamente si è fatto passare come teoria e pratica materialistiche in arte, non si limita a comunicare contenuti materialistici, ma già come forma e linguaggio vive sia lo svolgersi dialettico che il derivare di questo della concretezza dei rapporti sociali. Quando Jancsó rifiuta la psicologia del personaggio, compie una scelta materialistica perché rifiuta l'“ideologia della forma” borghese, che affida ad esso la rappresentanza e la comunicazione dei propri “valori”. In Jancsó vi è l'uso della massa in funzione espressiva: il “protagonista” non è un “personaggio” ma è la collettività, la coralità.

Il fulcro del materialismo estetico-ideologico è in Jancsò il piano-sequenza, espressione concreta del dialettico riflettersi nella sovrastruttura delle contraddizioni strutturali. Non è un caso se il piano-sequenza è per Pasolini addirittura il cinema (cfr. Empirismo eretico) e per Antonioni è metodo di analisi della dissoluzione della classe borghese condotta sui mezzi del comunicare.