Roger Corman, papa e papà del cinema americano

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Lo scorso 9 maggio è venuto a mancare Roger Corman. Papa dei b-movie e papà di tanti registi in erba (Scorsese, Coppola, Demme, di cui produsse alcune delle loro prime opere), Corman fu un autore ecclettico, spaziando dalle trasposizioni da Edgar Allan Poe con Vincent Price a film più impegnati (L'odio esplode a Dallas, 1962, sulla questione razziale) se non addirittura sperimentali (lo psichedelico Il serpente di fuoco, 1967, sulla dipendenza dalle droghe). Ultima sua opera da regista, è il curioso Frankenstein oltre le frontiere del tempo (1990) girato in esterni a Bergamo Alta (se ne parla nel numero speciale monografico di «Cineforum» Le città illuminate dal cinema, pubblicato in occasione di Bergamo Brescia Capitale della Cultura 2023). Lo incontrammo personalmente a Bergamo Film Meeting nel 1992, ospite per una ricca retrospettiva a lui dedicata: un grande regista, e anche una persona squisita. Per ricordarlo e rendergli omaggio, riproponiamo un articolo di Fabrizio Liberti sui suoi esordi come regista di b-movie, pubblicato su «Cineforum» n. 321, gennaio/febbraio 1993, e la recensione del gangsteristico Il clan dei Barker (1970, con una strepitosa Shelley Winters e il pressoché esordiente Robert De Niro), a firma Sandro Scandolara, apparsa su «Cineforum» n. 101, marzo 1971.

 

«Cineforum» n. 321, gennaio/febbraio 1993

Squarci di Cinema

Il cinema di Roger Corman

 

Fabrizio Liberti

 

La Aip era una delle case di produzione più agguerrite, stretta come era nella morsa dei grandi studios che non lesinavano soldi e mezzi nelle loro realizzazioni, e nella realizzazione della politica produttiva dell'Aip Roger Corman assumeva un'importanza di primissimo piano. Una politica che si basava su due direttrici principali: la prima era quella di inserirsi con prodotti poco costosi nel solco dei successi sfornati dalle major, e la seconda era quella di prevedere e di indirizzare i gusti del pubblico creando filoni, sottogeneri eccetera, per tentare di gestire in esclusiva per un certo periodo di tempo piccole porzioni di mercato, prima che le major si adeguassero e coprissero anche quegli spazi.

I cormaniani Il mostro del pianeta perduto e Il conquistatore del mondo, e i gioiellini di Bert I. Gordon, I giganti invadono la Terra e La vendetta del ragno nero, sono perfettamente riconducibili a quanto detto. Infatti essi non sono altro che cloni scaturiti da un abile rifacimento di pellicole in voga in quegli stessi anni o in anni immediatamente precedenti, rinvigoriti da immagini e ambientazioni provenienti dal mondo dei “Marvel Comics” o delle “Astounding Stories”, se non addirittura da spunti e notizie di cronaca riprese dai quotidiani. Il mostro del pianeta perduto, il primo film di science fiction di Corman, nasce infatti dalla preoccupazione diffusa dai giornali del tempo sul rischio di contaminazione radioattiva delle grandi città americane, fra cui New York, proveniente dai poligoni nucleari del Nevada. E i sopravvissuti alle radiazioni pensati da Corman si trovano a lottare con un mostro che riprende le fattezze di quello protagonista de Il mostro della Laguna Nera di Jack Arnold (curiosamente i due film condividono uno dei protagonisti: Richard Denning). Il conquistatore del mondo è invece figlio della contrapposizione in blocchi della Guerra fredda; fa parte di quel filone che vede gli alieni come conquistatori malvagi, subdolamente mascherati con identità umanoidi e pronti a manipolare e controllare il cervello degli umani. Non è difficile vedere in questa visione propria del genere (a parte poche eccezioni come Ultimatum alla Terra di Robert Wise e Cittadino dello spazio di Joseph M. Newman) il sovrapporsi del pericolo alieno con quello comunista, e Il conquistatore del mondo si inserisce a pieno titolo in quel filone.

[…] Ultimo film della serie è La leggenda vichinga, un'opera minore di Corman che dovette cambiare l'attrice principale il giorno precedente l'inizio delle riprese e che fu protagonista di numerose liti sul set con due dei suoi attori: Abby Dalton e Richard Devon. Il film, ispirato dalle notizie di ritrovamenti archeologici che provavano come la scoperta dell'America fosse in realtà opera dei vichinghi, narra di un gruppo di donne vichinghe che attorno all'anno Mille attraversano l'Oceano alla ricerca dei propri uomini, partiti mesi prima e non più tornati. Dopo essere sopravvissute all'attacco di un mostro marino, le donne si ritrovano su un'isola dove vengono prese prigioniere da un gruppo di guerrieri malvagi che tengono schiavi in miniera anche i loro uomini, e dopo molte peripezie, riunite ai loro compagni, riescono a fuggire. Il film rimane famoso perché, nonostante le mille difficoltà affrontate da Corman, vanta un record difficilmente superabile, quello delle settantatre riprese realizzate in una sola giornata. Ma il film resta fra i meno riusciti di Corman e uno dei pochi a non avere incassato dollari. Comunque getta un discreto sguardo di insieme a quel cinema “povero” degli anni 50 che però rispondeva alle attese di un pubblico giovanile che sino ad allora aveva dovuto sopportare le edificanti storie di Andy Hardy o i lavori di Walt Disney.

La Aip, con Roger Corman in prima fila, contribuì a creare il mercato del cosiddetto exploitation film che modificò decisamente il sistema produttivo e distributivo del cinema americano. Affiora quindi da queste opere in bianco e nero tutto il fascino di un artigianato ingenuo (ma redditizio) che costruì e costituì l'immaginario collettivo di tutta una generazione di giovani e al quale oggi guardiamo con tenerezza, ma che, non dobbiamo dimenticarlo, è quello stesso dal quale gli autori delle più riuscite opere di science fiction dei nostri giorni hanno attinto a piene mani.

 

«Cineforum» n. 101, marzo 1971

 

Il clan dei Barker

Un regista eclettico

 

Sandro Scandolara

 

Roger Corman, scaltrito narratore, resterà forse famoso per aver girato sessanta film nel giro di dieci anni, dal 1954 (allora aveva appena ventotto anni) al 1964. La specializzazione di Corman è filmare Poe e riprendere i suoi spunti e i suoi temi per riproporne l'atmosfera d'angoscia. […] Si segnalano per la secchezza della narrazione due film che riprendono temi del gangsterismo anni 30 e fanno da immediati antecedenti a Il clan dei Barker: si tratta di La vita di un gangster (1958), scabra vicenda dell'ascesa e della morte di un gangster, e di Il massacro del giorno di San Valentino (1967), truculenta rievocazione del noto fatto criminale del 1929.

Il film è ovviamente centrato sulla figura della madre ma il discorso va ben al di là del sarcasmo e sulla retorica delle più salde virtù familiari. La madre stessa diventa il simbolo di quei fatiscenti valori borghesi su cui si basa il presunto ordine che genera sia il commerciante che il rapinatore. Ma' Barker non è una degenerata. Se degenerazione vi è, consiste nell'accettare completamente tutti i valori e tutti i miti della società. Non è una ribelle, anzi è tanto integrata da esasperare i mezzi consueti, la violenza, con cui tutti si procurano il benessere, che è il fine sociale più diffuso. Vuole vivere bene: «Un giorno sarò in un palazzo e se non sarò in un palazzo tanto vale che non mi trovi», dice lasciando il marito; il fallimento e la riuscita di una vita vanno misurati sul metro degli oggetti che si ottengono. Il rimprovero che fa al marito è proprio quello «di non esser stato capace di farci fare una vita decente». Ma al figlio insegna, andandosene da casa, che «è tuo padre e lo devi rispettare».

Il qualunquismo e l'individualismo emergono continuamente: «Bisogna cercar di star fuori dalla politica»; «E quando capita un guaio bisogna cercar di cavarsela da soli». Per questo Lindberg diventa un esempio da imitare, perché ha saputo «fare da sè». Anche Ma' Barker comincia a fare da sè. Non va contro il sistema: l'ha capito in pieno, lo attua conseguentemente. La fortuna nelle rapine viene vista come “Volontà della Provvidenza”, «Se no non avrebbe lasciato tutti quei soldi nella banca»: anche qui l'imbastardimento di una religione (quanto spesso frequente anche nella nostra mentalità) ridotta a strumento di riuscita personale, nell'illusione così patetica ma così oscena di esser al centro dell'universo.

Il perbenismo caratterizza naturalmente anche i figli. Herman concede la fidanzata ai fratelli ma avvisa, tutto serio, che «Quando la sposerò nessuno la tocca più!». Anche il commerciante rapito trabocca di buon senso; invita Ma' Barker berciante a «controllarsi di più»: «Non mi piacciono le donne che imprecano. Lasciale agli uomini certe espressioni». Lo squallore di un mondo si evidenzia proprio nel rapporto con il rapito: risorge una bella e tipica famiglia borghese, non c'è differenza fra gangster e vittima: vivono entrambi i medesimi valori, si propongono i medesimi fini, usano, con tonalità diverse, gli stessi mezzi.

Il rapito si sente addirittura addosso una responsabilità educativa nei confronti dei figli Barker: «Avreste davvero avuto bisogno di un padre, di un padre che vi avesse messo uno a uno sulle ginocchia e vi avesse levato l'anima a furia di legnate» (dove è perlomeno discutibile sia il mezzo scelto per il rapporto pedagogico che l'informazione sulla localizzazione dell'anima). Sono tutti il frutto di una pedagogia della paura che riduce le persone a oggetti e che cerca compensazioni in altri oggetti. Dinnanzi ai figli uccisi Ma' Barker esclama finalmente quanto ha sempre temuto: «Le bestie verranno a divorarli, io non voglio che li divorino». Le bestie vanno esorcizzate, così le paure di una società e di Ma' Barker: «Se non sei ricco non sei libero, lo sai, e io non voglio altro che essere più libera di tutti». La ricchezza come fine sociale di una società ansiosa: il cerchio è chiuso, Ma' Barker non ne esce, è una rotellina nel sistema, in nulla diversa dalle altre. I miti di cui è imbevuta, la famiglia, l'ambizione, l'intraprendenza personale, la moralità del clan, non sono sufficienti a dare un senso all'esistenza, sono anch'essi “oggetti” che bisogna avere perché tutti li posseggono. Il crimine in tutto ciò non sembra esser nulla d'abnorme, anzi. All'interno di quel sistema il crimine funge da atto di compensazione e di redistribuzione delle ricchezze. È quindi un fenomeno di “aggiustamento”, non è nulla di nuovo, di diverso, di estraneo. È una forma di rivalsa della povera gente, necessaria perché il sistema non cambi nelle sue sostanziali strutture di sfruttamento.

La stessa sparatoria finale, la conclusione della vicenda criminale dei Barker, non ha nulla di epico, nulla di divergente. I Barker asseragliati nella villa, i poliziotti attorno alla casa e poco discosto il pubblico dei gitanti che seduti sull'erba in un normalissimo picnic assistono alla sparatoria accompagnandone con gridolini e sussulti le fasi; non c'è violenza, non c'è rivolta, è gioco, è spettacolo; non ci sono due forze contrapposte per prevalere l'una sull'altra; appartengono entrambe al medesimo “ordine” e si possono tranquillamente contemplare nella sicurezza che non sarà turbata la serenità della merenda sull'erba né la limpidezza dell'aria né la luminosità del paesaggio.

La “mamma” è il bandito, il mostro, una madre che assomma tutte le virtù tradizionali di madre e che senza mutamenti “qualitativi” si ritrova a rappresentare l'esecrando capro espiatorio della cattiva coscienza. Corman ha operato un abilissimo e suggestivo rovesciamento delle carte in tavola: nessun richiamo alla fuga romantica dallo squallore delle norme; è l'accettazione totale e convinta delle norme che costruisce il criminale.

[…] Il clan dei Barker richiama immediatamente Bonnie and Clyde, il film di Penn che rievoca un episodio contemporaneo. Va detto però che Il clan dei Barker appare più serio, meno mistificante. Il rifiuto del sentimentalismo, il continuo evitare allo spettatore l'immedesimazione col personaggio, la voluta accumulazione degli effetti risultano spesso una scelta per evitare i piagnistei sul caso individuale (come accadeva in Bonnie and Clyde) e per far risaltare il discorso di fondo, che vuole essere “politico”, nella misura in cui implica un giudizio sui valori sociali.