Cléo dans la ville

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Ai primi di ottobre di sessant'anni fa, usciva nelle sale italiane Cléo dalle 5 alle 7, secondo lungometraggio di Agnès Varda dopo La Pointe Courte del 1958. «Cineforum» recensì il film sul numero 19, novembre 1962, con un ampio dossier a cura di Gianni Amico comprendente un profilo di Agnès Varda e un'analisi del film, nonché dichiarazioni dell'Autrice e una mappa di Parigi per orientarsi nelle peregrinazioni della protagonista Cléo. Una chicca incastonata in Cléo dalle 5 alle 7 è il “film nel film” che la protagonista va a vedere in un cinemino: una comica muta, girata dalla stessa Varda, con Jean-Luc Godard e Anna Karina come burleschi protagonisti. Riproponiamo qui le dichiarazioni di Agnés Varda sul film e un ampio stralcio dell'articolo di Gianni Amico.


Tra la civetteria e l'angoscia

La storia di Cléo è una storia che mi commuove: questa giovane e bella donna è improvvisamente costretta a pensare alla morte, e non ne è preparata.
Malgrado la sua bellezza, un certo successo di chanteuse, l'amante, e gli amici, essa è sola, senza difesa alcuna per sopportare l'idea della morte. Questa idea semina la paura in lei.
Cléo si dibatte fra la sua naturale civetteria, che le dà sicurezza, e la nuova angoscia che la pone di fronte a un mondo inquietante. Essa è in balìa di impressioni che la sommergono nel movimento delle loro onde.
Mi è parso interessante far rivivere questi moti vivi e ineguali come una respirazione alterata nell'intimo di una realtà nella quale i secondi si misurano senza fantasia. Vorrei che si avvertissero nel medesimo tempo le variazioni del violino e il metronomo.
Cléo de 5 à 7, o con più esattezza dalle 5 alle 6.30, si svolge al tempo presente. La durata è reale (la macchina da presa non abbandona Cléo durante tutta la durata del film), anche i tragitti sono reali (uno spettatore potrebbe, con comodo, ripercorrere·il cammino di Cléo, e individuare nel suo tragitto, nei luoghi reali, ciò che essa ha visto).
Sarebbe stato l'ideale poter girare il film in un'ora e mezza, con più macchine da presa. Sarebbe stato un reportage di lusso su Cléo a Parigi.
In pratica, data la circolazione, è più complicato: per le riprese abbiamo impiegato due mesi, ma è come avessimo impiegato un'ora e mezza stiracchiata, poichè abbiamo proceduto nelle riprese con assoluto ordine cronometrico, per rispettare le varie fasi dello svolgimento del film, sincronizzando i momenti dell'incontro.
Un mese dopo, erano le 17 e 45, Cléo, spossata, usciva di casa e dalla prigione della sua intimità scopriva, per la via, al Caffè del Duomo, alla Stazione di Montparnasse, le immagini che riflettevano la sua paura.
Corinne Marchand ha vissuto la storia di Cléo nel suo progressivo sviluppo. Cosicchè era sempre più presa dalla fatica, sempre più conforme al personaggio, facendo rivivere nella realtà esattamente quella idea che io avevo del film: l'evoluzione interiore di Cléo diveniva realtà per il cambiamento fisico di Corinne avvenuto nei due mesi. Essa era il punto di equilibrio tra la finzione e la realtà.
Cléo de 5 à 7 è il film documentario su di una donna a Parigi. Quindi oggettivo.
È il ritratto di Cléo. Quindi soggettivo.
Minuto per minuto il film nel suo svolgimento ha una durata oggettiva. All'interno di questo tempo meccanico, Cléo prova la durata soggettiva: «Il tempo continua», o «Il tempo s'arresta», o «Il tempo sfugge e la trascina».
Essa stessa ci dice: «Ci resta poco tempo» e, un attimo dopo: «Abbiamo tutto il tempo»…
Vorrei che la storia di Cléo, giovane donna ferita nella sua carne e senza dubbio promessa alla morte, bellezza senza armi, spirito senza difesa, che questa storia toccasse il pubblico, come mi toccano i dipinti di Baldung Grien, dove si vedono delle superbe donne bionde e nude avvinghiate da scheletri.
Indi il film narra come Cléo, sentendo allontanarsi da lei la vita, le sue abitudini, le sue superstizioni, diviene curiosa, sensibile e disponibile al punto da incontrare un giovane.
Con lui essa è vera.
Non è una fiamma d'amore improvvisa.
È semplicemente un dialogo tra una donna e un uomo che possono aiutarsi, in ogni caso, comprendersi e forse anche amarsi.
La sola difesa di Cléo contro la morte, è forse questo giovane che parla volentieri di botanica…

Cléo dalle 5 alle 7 di Agnés Varda

Cléo pur avendo un tema fondamentale, è in effetti un'opera tematicamente assai ricca, in cui una serie di temi si intersecano concorrendo tutti, anche se in misura diversa, a formare il ritratto di Cléo e dei suoi atteggiamenti. Pur essendo una esauriente elencazione dei temi che affiorano nel film, lavoro che richiederebbe uno spazio assai maggiore, riassumiamo di seguito quelli che ci paiono fondamentali.

Personalità di Cléo

Cléo è una creatura assai bella con la quale la vita non è avara di successi e di gioie. La malattia è l'accidente che sconvolge la sua vita e la pone di fronte al problema del senso della vita, intesa questa formula generica nella sua accezione esistenziale. Se, nella parte iniziale del film, Cléo riesce a riprendersi, a rassicurare se stessa, ciò avviene soprattutto in virtù di un ricollegarsi alla sua precedente esistenza, che si può definire una continua forma di vacanza, prima che la paura della morte le imponesse il problema appunto del senso della vita e di una “riscoperta” di se stessa e del mondo. È sempre ciò che ella si illude di poter ancora essere, che le permette di rinfrancarsi e di farle ritenere di poter intromettere nei suoi rapporti con gli altri un nuovo avvenimento, la malattia, che potrà procurarle nuove tenerezze. Solo quando sarà costretta dalla sua nuova condizione umana a ritrovare una sua autenticità, Cléo potrà iniziare il cammino che la porterà prima all'incontro con Dorotea e poi a quello con Antoine.

Cléo e gli altri

Altro tema fondamentale del film è il rapporto di Cléo con gli altri. Cléo è abituata alla compiacenza degli altri e ancora la ricerca nella sua nuova condizione (vedi reazioni alle parole della direttrice del negozio). Negli altri però Cléo trova, ora che il suo modo di guardare la realtà è mutato, soprattutto l'indifferenza e l'estraneità.

Gli altri e il mondo che circonda Cléo sono, d'altronde, la proiezione esterna del suo dramma e delle sue paure. L'orrido che più volte le si presenta: il mangiatore di rane, il fachiro, le maschere africane e quelle sul volto degli studenti; così come il mistero, quello delle carte, dei volti impenetrabili che ella incontra sul suo cammino, delle grandi statue esposte all'accademia, la riportano continuamente al pensiero e all'esigenza di ritrovare un raporto con la vita. Nel finale del film il rapporto muta e Cléo riesce a comunicare con Dorotea, con Raul, con Antoine.

Cléo, perciò, non è un film sull'incomunicabilità, è anzi il contrario. La solitudine di Cléo nella prima parte del film è sostanzialmente diversa da quella proposta da Antoniani e dai suoi epigoni. Non ci troviamo in Cléo di fronte a una condizione ontologica ma piuttosto alla conseguenza di un accanimento fortuito, la malattia, che più non consente alla protagonista la distrazione e il continuo “divertissement pascaliano “ condizionandola a una certa visione delle cose che, all'inizio precaria, via via diventa più ottimista. La nuova personalità le consente finalmente una comunicazione autentica che la porta a pronunciare la parola felice.

Il film nel panorama del cinema francese

Cléo rientra perfettamente nel quadro del giovane cinema francese e anzi ne costituisce uno dei risultati più significativi. Ci pare, però, che per alcuni versi l'opera si stacchi dalla tematica degli altri film del jeune cinéma. In Cléo, come nei film di Demy, Truffaut, Godard, Resnais, Marker, si ritrova una padronanza del linguaggio cinematografico che a volte rasenta il virtuosismo, così come si ritrova il desiderio di sperimentare nuovi linguaggi, di allargare le possibilità espressive del mezzo cinematografico, di guadagnare al cinema una nuova maturità e una modernità artistica.

Dal punto di vista del linguaggio la novità più evidente in Cléo è, come abbiamo già notato, il tentativo di giungere a un film parzialmente in prima persona, a una storia, cioè, vista e vissuta attraverso gli occhi della protagonista. Nel film della Varda, ed è questo uno dei suoi meriti maggiori, a differenza da molti altri della Nouvelle vague, però, la sperimentazione di nuovi linguaggi non va mai a detrimento dell'unità del film, ma anzi contribuisce a una sua maggiore limpidezza.

Conclusione

Cléo dalle 5 alle 7 ci pare opera di notevole importanza nel cinema moderno e fra le più belle degli ultimi anni. Su questo parere concordano la grande maggioranza della critica internazionale e, stando ai referendum pubblicati da alcune riviste, i pubblici qualificati.

Vale qui la pena di ricordare, che una lettura del film inteso essenzialmente come “monologo” della protagonista, operata da una parte della critica, porta a una valutazione sostanzialmente diversa dalia nostra del finale del film che viene inteso come una nuova “visione” contradditoria rispetto alle precendenti, che porta Cléo a immaginare realizzato un rapporto invece solo ambito. Questa lettura confermerebbe una certa tendenza all'ambiguità dei nuovi registi francesi; ci pare però giusto affermare, in virtù della lucidità espressiva del film, che esso è solo in parte scritto in prima persona e che nei capitoli finali si torna a una stesura oggettiva.

La critica italiana è stata fra le più tiepide nell'accogliere il film della Varda. Due le riserve fondamentali nei confronti dell'opera. La prima è quella di un eccessivo intellettualismo che andrebbe a detrimento di un rapporto diretto e immediato fra il film e lo spettatore. A questa obiezione ci pare si possa rispondere che quello che appare intellettualismo non è in effetti che consapevolezza e riflessione critica sulla materia narrata, cioè un carattere distintivo di tanta arte moderna, non solo cinematografica.

Alberto Moravia, in una delle note più stimolanti apparse tra noi sul film, scrive: «La morte o meglio la consapevolezza della morte, trasforma la realtà e la rende più profonda, più viva, più pungente, più poetica. Proprio per rendere·questa trasformazione della realtà la Varda non poteva prescindere dall'uso di un linguaggio, fatto di una pluralità di moduli espressivi, che è complesso ma nello stesso tempo raggiunge una chiarezza rara nel cinema d'oggi».

Se si accettano questi presupposti viene a cadere anche la seconda riserva nei confronti del film, cioè l'accusa di freddezza, conseguenza diretta della prima. Ma indipendentemente dall'uso che si può fare del termine “freddezza”, e delle conseguenze estetiche che comporta, da un punto di vista di adesione sentimentale e morale il film potrà da qualcuno essere considerato freddo, ma mai arido.

Alcuni hanno anche rimproverato alla Varda di usare una malattia mortale come molla che fa scattare il dramma di Cléo quindi di aver scelto un caso limite, quando la suggestione che nasce all'inizio dalle carte era sufficiente a motivare le sensazioni della donna in quell'ora e mezza della sua vita. È un'obiezione questa che, se accettata, va allargata a tutto il film. Abbiamo già notato infatti come uno dei caratteri dell'opera, all'interno della sua complessità, sia proprio una voluta semplicità. Tutti i temi del film sono proposti, allargati e ribaditi, guardati da diverse angolazioni. A noi pare che ciò costituisca uno dei suoi pregi più notevoli in un momento in cui si tende a suggerire le cose, mai a dirle esplicitamente, pretendendo dallo spettatore di integrare l'opera.

La Varda dice tutto e chiede allo spettatore una partecipazione anche emotiva oltre all'impegno intellettuale. Crediamo che tale richiesta sia legittima e che nulla perda lo spettatore, nel concedere una collaborazione di natura sentimentale, una possibilità di formulare un motivato giudizio critico.