I cinquant'anni di un grande film sul cinema

Effetto notte a Cannes '73

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Ottima annata, l'edizione del Festival di Cannes che si chiudeva in questi giorni di cinquant'anni fa. Dal vago retrogusto osé, data la presenza in concorso di La grande abbuffata di Marco Ferreri e La maman et la putain di Jean Eustache, Cannes '73 vedeva anche, fra gli altri, film come O Lucky Man! di Lindsay Anderson, La clessidra di Wojciech Has, Il pianeta selvaggio di René Laloux, Anna e i lupi di Carlos Saura e, fuori concorso, Sussurri e grida di Bergman ed Effetto notte di François Truffaut. Quest'ultimo, che è senz'altro il migliore “film su un film” mai fatto, ed è anche la profonda testimonianza dell'amore del suo autore per il cinema e per la vita, venne a suo tempo recensito su «Cineforum» da Vittorio Giacci (nel n. 130, febbraio/marzo 1974). Qui riproponiamo la prima parte dell'articolo, nella quale si parla approfonditamente del film; in tale articolo, poi, Giacci passa a parlare del cinema di Truffaut in generale, ed è una lettura che raccomandiamo caldamente di recuperare.

 

 

«Cineforum» n. 130, febbraio/marzo 1974

Scheda Effetto notte di François Truffaut

Effetto notte e Vi presento Pamela: cinema e film

Vittorio Giacci

Effetto notte chiude un periodo artistico iniziato nell'ormai lontano 1959 e si pone come punto conclusivo di alcune tematiche del regista francese («Ci sono molte cose iniziate in altri film, come l'interrogativo se le donne siano magiche, che qui terminano, le mostro per l'ultima volta») oltre il quale, per l'autore, non resta che fermarsi definitivamente o intraprendere, da capo, una nuova strada. Quando Truffaut/Ferrand afferma che «con la morte di Alexandre scompare un'epoca del cinema, e i film si gireranno per le strade senza copione», non c'è solo il proposito di parlare con nostalgia di un cinema che muore, quello americano (ricordato anche nel titolo originale La nuit americaine) mediante le riprese di un film girato secondo lo stile hollywoodiano, in coproduzione internazionale e con attori di richiamo, ma anche la riflessione stessa di Truffaut che con Vi presento Pamela ha voluto fissare sullo schermo la dissezione del proprio modo di fare cinema, come per volersi analizzare e interrogare.

Vi presento Pamela avrebbe potuto essere benissimo un film di Truffaut, come Le due inglesi, ad esempio, e sarebbe stata senza dubbio un'opera ugualmente riuscita ed affascinante. Invece ha voluto sezionarne la trama, le vicende e la struttura, isolando le componenti e spezzandone la continuità, per ricostruire all'interno di un film, un film sul cinema. Vi presento Pamela è la rappresentazione della creazione di un film ed è essenzialmente un discorso personale sulla propria concezione del cinema, espresso in forma di confessione autobiografica, perché, dopo, non sia più possibile proseguire per il medesimo verso. Al tempo stesso Effetto notte è un film d'esordio: la scena ricorrente del sogno in cui Truffaut si rivede bambino riporta immediatamente all'atmosfera, se non alla precisa età, del primo film I quattrocento colpi, legando indissolubilmente passato e presente. Nell'ultimo/primo film vi è dunque l'elemento autobiografico di sempre, con un ritorno proclamato all'adolescenza del primo lavoro. Truffaut è sempre stato autobiografico nei suoi film, ma non ha mai parlato con evidenza della sua vita reale. Se in Effetto notte tutti gli attori e i partecipanti alle riprese comunicano allo spettatore qualcosa della loro vita privata, non è così per Truffaut, che rimane solamente “il regista”. L'unico momento concretamente autobiografico è quello del sogno.

Per Truffaut la vita è sempre filtrata attraverso il cinema («Ho sempre preferito il riflesso della vita alla vita stessa») per cui le sensazioni di ogni suo film sono tutte decisamente un riflesso della propria esistenza (di Truffaut, a ben pensarci, di preciso si sa solo che dal 1959 al 1973 ha girato quattordici film). Effetto notte è il cinema, Vi presento Pamela è il film. Un tipico film di Truffaut, e non un pretesto per far vedere come si gira un film. Se così non fosse, Effetto notte perderebbe quel significato e quella dimensione che deriva dalla intima relazione cinema e film (pirandellianamente realtà e spettacolo) che intercorre tra le due opere. In questo gioco di realtà e riflesso cinematografico Truffaut interpreta se stesso per parlare in prima persona della propria attività artistica, le cui componenti fondamentali sono un atto d'amore nei confronti del cinema e l'autobiografia.

 

Un atto d'amore verso il cinema

Truffaut ha sempre amato il cinema: da piccolo, quando sottraeva le locandine pubblicitarie di quei film che sarebbero poi diventati i suoi più profondi amori; da critico e giornalista, quando pronunciava i suoi giudizi dalle pagine di «Arts» o dei «Cahiers du Cinéma»; da regista, con le sue opere ispirate e dedicate al “cinema”. E questo amore Truffaut non l'ha mai nascosto, anzi, l'ha assunto a componente essenziale della propria opera. Le dediche e le continue citazioni ai modelli che l'hanno ispirato (Renoir, Rossellini, Hitchcock, Griffith) non sono certo riconoscimenti dall'esterno, ma lievitano entro la rappresentazione cinematografica stessa, pur essendo perfettamente funzionali alle vicende dei suoi film. Infatti la realizzazione di numerose scene narrate (in caso contrario si avrebbero delle interferenze fastidiose e posticce) rappresentano anche chiari e affettuosi riferimenti ad analoghe situazioni care alla cultura cinematografica di Truffaut. Basta pensare alla lunga carrellata dall'acqua sullo chalet in riva al lago ne Le due inglesi che ricorda l'inquadratura dell'arrivo di Melanie a Bodega Bay ne Gli uccelli di Hitchcock, o, sempre ne Le due inglesi l'episodio della coperta che deve proteggere Muriel dagli sguardi di Claude, e che è un momento già vissuto in Accadde una notte di Frank Capra. E come non ricordare Mica scema la ragazza, garbata fusione degli stili di Renoir (le ballerine del “French Can Can”) e di Hitchcock, che addirittura è ricordato qui nella scena del marito di Camilla che si alza dalla sedia a rotelle, per l'identico comportamento tenuto dal regista anglosassone nella sua breve apparizione in Topaz?

Ma tale atteggiamento è ancor meglio espresso in La mia droga di chiama Julie, il film di Truffaut più vicino al cinema di Alfred Hitchcock: il senso del mistero che si cela dietro la falsa identità di Marion (che ricorda, anche nel nome, l'hitchcockiana Marnie), i suoi pensieri ed il suo strano comportamento derivano direttamente dalle tematiche di questo regista e dalla sua filosofia della vita a cui Truffaut per alcuni aspetti si avvicina. Effetto notte poi, stupenda suite per orchestra in cui sono i riflettori e le cineprese che cantano una melodia d'amore, è denso di richiami precisi in tal senso: il momento dell'arrivo del pacco di libri che viene consegnato sul set a Truffaut e che egli fa passare, uno a uno, davanti alla macchina da presa perché il pubblico possa leggere i nomi di Buñuel, Dreyer, Lubitsch, Bergman, Godard, Hitchcock, Rossellini, Hawks e Bresson; le (per ora) inesistenti vie dedicate a Jean Vigo e ad Henri Langlois (il conservatore della Cinématheque Française); la salvietta con la firma di Jean Cocteau e la dedica iniziale del film a Dorothy e Lilian Gish; addirittura la “citazione nascosta” costituita dalla parola “stagefright”, detta da Jean-Pierre Léaud a Jacqueline Bisset, e che vuol dire sì paura di recitare, ma è anche il titolo di un film di Alfred Hitchcock.

Tutto il film parla dell'amore di Truffaut per il cinema (a tal punto che perfino il produttore, che è la figura solitamente più odiata dai registi, è qui tratteggiato con simpatia e benevolenza): egli ne svela i segreti con dolce abbandono, e sottopone agli occhi del pubblico nel loro momento di “trucco” anche gli elementi naturali come il fuoco, l'acqua, il vento, la neve, o la luce della candela che, nella parte non rivolta allo spettatore, nasconde una piccola lampadina per illuminare meglio il viso dell'attore. Il cinema e la sua finzione: la stanza dalla quale si affaccia Pamela per salutare i suoceri costruita sul vuoto, per quel tanto che deve vedersi nell'inquadratura; la scena dell'incidente di macchina dalla quale ruzzola fuori una Pamela che è in realtà un cascatore specializzato.

Il cinema e la sua magia: il fascino della moviola che permette di accelerare, rallentare, fermare o rivedere una medesima scena all'infinito per coglierne la bellezza interiore, e della pellicola che si srotola con sinuosa dolcezza per dar vita, a ogni momento, a una emozione fissata per sempre. Insieme agli effetti che rendono credibile e amabile il cinema ed i suoi artifici, vi sono poi le piccole e grandi vicissitudini di ogni giorno che danno vita quasi a un altro film, a volte ancor più ricco ed interessante, e che lo spettatore non vedrà mai: gli amori facili e rapidi che si intrecciano all'interno e al di fuori del set tra i membri della troupe, le gelosie e le crisi degli attori che dimenticano la loro parte o che non riescono a isolarsi dai problemi personali nemmeno durante le riprese, le disavventure che possono inaspettatamente far rallentare il ritmo della lavorazione (quando il copione prevede che un gatto debba bere del latte e questi assolutamente rifiuti di farlo, o la mancanza di corrente che può rovinare irrimediabilmente la scena più ricca di comparse del film) o, più grave e drammatica, ma sempre incombente in un'attività che richiede la presenza di tutti fino all'ultimo, l'improvvisa morte di un attore, con le tragiche conseguenze morali e materiali che questa scomparsa comporta, e che devono esser risolte col cinico ma necessario rimedio dell'affrettata ricerca di una controfigura.

E in mezzo a questi avvenimenti la figura del regista poco assomiglia a quella dell'estroso creatore e artista, avvicinandosi maggiormente a quella di un coordinatore (indubbiamente un ruolo più modesto, ma più attinente alla realtà) che deve smussare urti ed attriti, saper convincere con la pazienza gli attori a sbloccarsi, attenuare la propria e l'altrui tensione, e far fronte rapidamente alle situazioni impreviste, quelle che nessuna “sceneggiatura di ferro” potrebbe mai prevedere. Come dice Ferrand prendendo a esempio l'immagine tipica del genere cinematografico per eccellenza, il western: «La lavorazione di un film assomiglia al percorso di una diligenza nel West». E insieme al regista, nella realtà della lavorazione emerge sempre la figura della segretaria di edizione, personaggio sconosciuto ma vero deus ex machina di ogni buon film, che decide e risolve scene e situazioni che farebbero arenare lo stesso regista.

Vi sono in Effetto notte divertenti cenni personali sul cinema d'autore («Perché non giriamo con i numeri?», dice Severine a Ferrand «Con Federico lo faccio sempre!») e su quello commerciale («Il Padrino, Il Padrino, Il Padrino! Pare che tutti gli altri film siano un fiasco!»), una precisa descrizione del rito cui si sottopone il vero cinephile («Abbiamo la fortuna di stare in una città con trentacinque cinema. Si sceglie il filmo, si chiede l'ora dell'inizio e, se c'è il tempo, si mangia un panino prima di entrare!»), e anche una sfumatura delicatissima e piena di rispetto per il desiderio di emulazione del modello ormai classico, che non è dunque un atteggiamento del solo regista, ma è sentito da qualunque tecnico nel suo specifico campo di attività («Le faccio la neve di Guerra e pace»).

Questo è il cinema, e Truffaut lo mostra con modestia e amore, senza esaltarlo ma ricostruendolo per quello che è: un mestiere, certamente più affascinante di altri, e per lui indispensabile, ma non “mitico” come si potrebbe pensare (così come le donne non sono magiche di per sé): bensì legato alla concretezza dei problemi pratici quotidiani che un lavoro d'équipe comporta. In questo atteggiamento è implicito un certo superamento, forse anche un'autocritica, di quel concetto di “politica dell'autore” che era stato uno dei punti cardine dei registi della Nouvelle Vague. Truffaut, dopo molti anni da quell'esperienza, oggi dice che sul set, mentre si gira, quella posizione non corrisponde a verità. Il regista è uno come tanti altri, «uno a cui vengono fatte in continuazione domande, e che a volte sa le risposte e a volte no», che deve ricordarsi di tutto e assolvere alle più minute incombenze, come scegliere la pistola che dovrà colpire Alexandre, dare un'occhiata alle fotografie di Julie Baker per decidere la parrucca più adatta, o sospendere le riprese in attesa della preparazione del “pane di burro” per l'attrice rinchiusa nel camerino. È anch'egli un collaboratore insomma, e proprio perché un film non è soltanto il frutto delle scelte di un autore, ma anche dell'intesa e delle capacità di tutta la troupe. Forse è per questo motivo che Truffaut lascia volutamente fuori da Effetto notte le fasi precedenti e seguenti la lavorazione del film e la sua vita privata, concedendo di sé solo quella breve, ricorrente immagine notturna del bambino.