Fisiologia del gusto - I 50 anni di La grande abbuffata

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Il personaggio interpretato da Ugo Tognazzi in Venga a prendere il caffè da noi (1970) di Alberto Lattuada ha una passione speciale per il saggio Fisiologia del piacere di Paolo Mantegazza, scienziato che fra le altre cose ebbe il merito di portare in Italia le tesi di Darwin. Un brano in particolare lo diverte: «Il piacere sessuale è paragonabile all'atto di piantare un chiodo in una lastra di acciaio». Alla lettura di questo brano, Tognazzi commenta sornionamente: «Certo che il Mantegazza era proprio un fenomeno». Lo stesso Tognazzi, tre anni dopo, si ritroverà, in compagnia di degni sodali quali Marcello Mastroianni, Michel Piccoli e Philippe Noiret, ad affrontare un ben diverso connubio, quello fra sesso e cibo declinato in chiave autodistruttiva, nel capolavoro di Marco Ferreri La grande abbuffata. Presentato in concorso al Festival di Cannes del 1973, venne recensito sul n. 132, maggio 1974, di «Cineforum». Riproponiamo qui l'intervista all'autore a cura di Paolo Mereghetti.

 

«Cineforum» n. 132, maggio 1974

 

Perché ho fatto un film fisiologico

Intervista con l'autore de La grande abbuffata

a cura di Paolo Mereghetti

 

Abbiamo incontrato Marco Ferreri sul set del suo ultimo film, La vera storia del generale Custer che sta girando in questi giorni a Parigi e che si prefigura già come qualcosa di veramente straordinario. Ma naturalmente il discorso è caduto subito su La grande bouffe, il film che ha sbalordito (per non dire irritato) il pubblico del Festival di Cannes, ma che dopo essersi aggiudicato il Gran Premio della Critica, sta battendo ogni record di incasso in Francia, proiettato contemporaneamente in una ventina di sale a Parigi, con gli spettatori disposti a fare code di ore pur di poterlo vedere.

Tenendo presente che il film non lesina né nei particolari sessuali, né in quelli, diremmo, escremenziali, e fisiologici (c'è perfino una canna della cloaca che si rompe allagando tutto il bagno) ci si può ben immaginare le “vivaci” reazioni di certa stampa francese che non è stata capace di veder messo alla berlina, e·in maniera tanto violenta ma anche pertinente, il mito dell'eleganza e della raffinatezza culinaria tutto transalpino. Di qui le abbastanza ingiustificate accuse di volgarità. Ma oramai siamo abituati a questi censori dell'ordine costituito, che non sapendo controbattere con l'intelligenza alle acute critiche che certi film portano avanti, si trincerano dietro il muro della moralità. Ma sentiamo piuttosto cosa lo stesso Ferreri ha da dirci su questa sua opera.

 

Il rito del pranzo, della mangiata è sempre presente nei tuoi film. dalla spaghettata della Donna scimmia al pranzo solitario di Break-up alla lunghissima cena di Dillinger è morto. Ma se prima potevano essere le rappresentazioni di un rito feticista della società, ne La grande bouffe il cibo e l'atto del mangiare si colorano di altre notazioni.

– Nel mio film il mangiare diventa l'ultima speranza, e disperazione, che sia presente davanti agli uomini. Più che dei significati metaforici particolari ho voluto rappresentare come davanti a uno specchio dei personaggi della nostra società: sono stanco dei film sui sentimenti, come La cagna, ed è per questo che ho voluto fare un'opera fisiologica. È proprio questa la parola esatta, perché solo così si può capire appieno il valore della mangiata (molto più che del cibo in sè), che diventa allora l'ultima certezza di questa vita. Facciamo un po' vedere alle persone il loro lato materiale, fisico, senza tanti sentimenti adatti solo a nascondere la vera realtà, quella del corpo. Bergman è un signore dei sentimenti, anche i miei vecchi film erano pieni di questi maledetti sentimenti: ora è tempo di ritornare all'uomo come animale fisiologico. Non al corpo come realtà edonistica, ma come unica, tragica realtà di questa vita.

Tutto questo trascina con sé una precisa concezione di te come “regista”, del valore del tuo mestiere, del suo significato…

– Io faccio il regista perché è l'unico mestiere che so fare e perché mi dà certi vantaggi; per il resto io sono un borghese che fa film borghesi per un cinema borghese a cui vanno spettatori borghesi con idee borghesi: sono stato chiaro? Mi sembra inutile, e infantile, pensare che questo tipo di società voglia programmare film rivoluzionari nelle sue sale; se lo fa vuol dire che sarebbe totalmente folle, o meglio, che i film non erano poi tanto rivoluzionari. È per questo che io faccio del film che vogliono solo essere lo specchio della realtà. Sono inutili i discorsi moralistici, sulle cose buone che bisognerebbe fare e che invece… Molto meglio sbattere in faccia allo spettatore la sua vera faccia, quella che i sentimenti gli nascondono, e cercare di fare in modo che abbia una reazione. Per questo sono contento quando fischiano e urlano al mio film, vuoi dire che ho colpito proprio giusto, nel segno. Tutto il resto mi sembra inutile. Un regista che volesse far passare una morale nel suoi film potrebbe essere al massimo riformista, e a me in questa società delle riforme non me ne importa proprio un… bel niente!

È indubbiamente per questo che i tuoi personaggi sono dipinti in un certo modo, come delle persone assolutamente normali, anzi pieni di luoghi comuni (mi ricordo le battute sulle hostess).

– Certo. I miei personaggi sono comuni borghesi di questa società, né troppo importanti, né troppo poco; alcuni sono anzi il frutto tipico del nostri tempi, come Marcello che pilota i Jumbo o Michel che lavora alla televisione (come altre volte i protagonisti di Dilliger e della Cagna, disegnatori di oggetti-fumetti di consumo). Era importantissimo tutto questo perché lo spettatore non deve aver niente che gli permetta di dire: tanto quello lì non sono io, io sono diverso. Non è assolutamente vero; lo spettatore deve pensare che chi vede sullo schermo può essere il suo vicino di casa, o lui stesso, perché solo allora il film può avere un valore, se fa riflettere sulla propria condizione di borghesi. Non come in Buñuel.

Buñuel appunto ha fatto l'altro grosso film sulla borghesia, e sulla sua voracità insaziabile. Cosa non condividi nel suo film?

– Non mi va il fatto che abbia dato delle connotazioni particolarmente esotiche ai suoi personaggi (ambasciatore di uno stato del Sud America, spacciatori di droga, vescovi, generali). Secondo me, facendo così si può permettere allo spettatore di distanziarsi dal soggetto, di dire: io non faccio così. C'è bisogno di un grosso sforzo intellettuale per andare a fondo del film, mentre il mio non lo richiede, perché penso di aver fatto un'opera più direttamente graffiante, più caustica, che compromette più direttamente lo spettatore. E poi non condivido questo sguardo disilluso e sostanzialmente slegato dalla storicità del presente che aleggia per tutto il film, che gli fa mettere sullo stesso piano conservatori e rivoluzionari, senza i necessari distinguo. Questo senza voler dire che non sia un'opera di tutto rispetto.

Parlami un po' dei personaggi del film, soprattutto di Marcello che sembra il più spaesato dei quattro. Più che di mangiare ha voglia di fare l'amore, e poi quella sua mania di voler rimettere in funzione la vecchia Bugatti trovata in garage.

– Mastroianni interpreta la parte più romantica, un po' quella di un cavaliere antico, sempre pronto ai voleri delle donne: solamente che vivendo nel 1973 va in Jumbo invece che a cavallo, e per quello che riguarda le donne, le esaudisce secondo i dettami della nostra società, cioè portandosele a letto. In lui la speranza estrema, oltre che dal cibo, è rappresentata dal sesso, ma per questo lato non è molto diverso dagli altri. Si differenzia Invece per quel che dicevo prima, e cioè per un certo atteggiamento da eroe romantico con vaghe influenze da sportman. Indubbiamente c'è in lui un certo atteggiamento eroico, ma sostanzialmente triste, da sconfitto in partenza. Sintomatica è la sua attenzione verso la vecchia Bugatti che adatta ad alcova per i suoi “doveri sessuali quotidiani”, e che cerca di rimettere in funzione. Ci riesce, ma gli serve solo per andare avanti e indietro per una decina di metri nel giardino; e quando, disperato, decide di andarsene nella notte, con lei farà l'unico vero viaggio, quello verso la morte.

C'è una ragione precisa dell'ordine con cui muoiono?

– Direi di no; Marcello muore per primo forse perché è il più indifeso, quello più “all'antica” e Philippe per ultimo perché la sua professione di giudice lo ha reso più terreno, più solido, ma tutto si ferma lì. Una ragione precisa non esiste.

I tuoi eroi ne fanno di tutti i colori, passando dalle mangiate fino a quello che qualcuno ha definito depravazioni sessuali, e che invece mi sembrano solo la denuncia dell'impossibilità, con un tipo di moralità come quella corrente, di un rapporto con l'altro sesso normale e libertario. Ma nessuno dei tuoi personaggi fuma. Perché?

– Perché il fumo è diventato una cosa talmente normale, che non permette di denotare una certa situazione particolare (nel film quella di figli di questa società). Non volevo fare un campionario dei vizi con La grande bouffe, perché mangiare e fare l'amore non sono vizi, ma mentre questi fatti fisici mi sembrano utili per rappresentare i borghesi, il fumo mi appariva del tutto superfluo.

Veniamo adesso alle donne. Nel tuo film da una parte ci sono le prostitute, veri e propri strumenti di piacere che non accettano di restare con loro, dall'altra Andréa, più sbozzata psicologicamente che sceglie di dividere la sorte dei quattro.

– Una divisione netta è decisamente presente, perché questa società nega ogni autonomia alle prostitute, degradandole a veri mezzi capaci solo di ottenere uno scopo, il piacere sessuale. E nel film si comportano di conseguenza. Assolvono con efficacia al loro ufficio, ma non seguono la sorte degli altri, proprio perché la società non vuole che abbiano neppure delle volontà, nega loro nei fatti ogni autonomia: e loro accettano anche questo ruolo. Per Andréa il discorso è differente: diventa la borghese pronta a esplodere, a distruggere miti che la società imponeva; per questo si carica di una valenza simpatica, piace nonostante tutto. Forse per la prima volta nel miei film c'è una posizione più indipendente per la donna, perché la sua partecipazione alla vita dell'uomo si attua in un momento particolare, il momento di passaggio in cui è proiettato verso la morte. Ma nonostante questo, la posizione di Andréa è subordinata a quella dell'uomo: è pronta ad assumere tutti i ruoli che la società maschile le chiede di assumere. E allora eccola mamma consolatrice, fidanzata pudica, amante appassionata, finanche cameriera: la sua non è un'autentica libertà, ma solo una fuga parziale da alcuni tabù. Per il resto è sempre in posizione subordinata.

Il fatto che non muoia può essere la riprova di questa impossibilità di trovare una propria assoluta libertà, magari con la morte?

– Può anche esserlo.

L'accoglienza della critica a Cannes è stata disastrosa: scioccati dal tuo film, mi ricordo che formavano un vero quadrato per difendere il mito francese della tavola e per attaccarti senza risparmiare colpi.

– Mi aspettavo quel tipo di reazione perché quella critica, sostanzialmente stupida, non può accettare che film edulcorati dai bei sentimenti. Quando hanno davanti l'uomo fisiologico, danno in escandescenze perché non riescono a manipolarlo: la materialità è per loro una barriera troppo grande, contro cui i buoni propositi non servono niente.

E l'eccezionale successo di pubblico che sta avendo in questi mesi il tuo film, come lo spieghi?

– Ha successo perché forse il pubblico vi si riconosce, nonostante tutto. Io ho cercato di fare una pellicola onesta, dura, che non concedesse niente allo spettacolo, per questo penso che il suo successo sia dovuto al suo effetto di specchio in cui i borghesi possono riconoscersi.

Ancora una cosa. Nel film non si sentono mai i quattro protagonisti parlare espressamente di suicidio: sappiamo di questa scelta solo dalle prostitute.

– Secondo la legge il suicidio è una “morte senza apparente motivo” e così è anche per i miei personaggi. La loro non è una scelta molto motivata né tantomeno precisa; non si accorgono della tragicità del loro gesto: un suicidio presuppone una scelta intellettuale. Per me non ci sono più i vari “ismi” che mascheravano ideologicamente il vuoto della vita; la tragica solitudine, il vuoto (nel senso che quelli della borghesia non sono valori) che circonda i miei personaggi li spinge a portare all'estremo un aspetto della vita, il mangiare. Poteva essere l'opposto, come quei monaci buddisti che arrivano all'ascetismo con continui digiuni: questi fanno il contrarlo. E al fondo di questo “estremismo” trovano l'unica vera realtà, quella a cui non si può sfuggire: la morte. L'unico problema di questa vita è quello di finirla, è svanita solo la bellezza di una volta.

Perché sei venuto a girarlo in Francia?

– È un film a cui non potevo pensare che in Francia, in un paese in cui ci devono essere circa centomila ristoranti. La mangiata, il mito delle stellette, la raffinatezza del pranzo sono cose tutte francesi; in Italia hanno un altro significato.