François Truffaut, un vero uomo di cinema sempre accanto a noi

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«Fare un film significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, significa prolungare i giochi dell'infanzia». Se un brutto male non l'avesse portato via troppo presto, in un triste giorno d'autunno del 1984, lo scorso 6 febbraio Truffaut, l'uomo che amava le donne, i bambini, il cinema e la letteratura, avrebbe compiuto novant'anni. François Truffaut per noi tutti è stato molte cose: un grande regista, un vero amico, una guida sicura lungo i sentieri della storia del cinema. Era un fratello maggiore (quando i padri e gli zii erano Roberto Rossellini, Alfred Hitchcock, Jean Renoir), benevolo e affezionato, anche per chi non ebbe mai la fortuna di conoscerlo di persona: bastava vedere i suoi film, leggere i suoi scritti ,per ritrovarsi in ottima compagnia. Cinefilo puro e appassionato, non era né pedante né concettoso, ma al contrario respirava cinema, mangiava cinema, beveva cinema, e soprattutto sapeva far amare il cinema con la stessa intensità con la quale lo viveva lui. François Truffaut, morto troppo presto, è una di quelle bellissime persone che, paradossalmente, lasciandoci non ci lasciano mai del tutto: perché basta vedere un suo film, leggere un suo articolo, per sentirlo ancora accanto a noi. Come andando a rileggere l'intervista pubblicata su «Cineforum» n. 130, febbraio-marzo 1974, in occasione dell'uscita italiana di Effetto notte, che qui riproponiamo.


La qualità di rimanere naturale

Parliamo dei suoi ultimi film, ad esempio, Le due inglesi. Lei l'ha definito come «un film fisico sull'amore e non un film sull'amore fisico». Può chiarire meglio questo concetto?

– Ne Le due inglesi ero mosso dalla volontà di mostrare che l'amore può rendere fisicamente ammalati. Da qui nasce l'importanza data agli svenimenti, alla febbre, al vomito, alle lacrime e al sangue. [Nell'edizione italiana la sequenza del lenzuolo macchiato di sangue dopo l'amplesso è stata eliminata dalla censura, ndr]

La parola usata più frequentemente per definire la sua opera è “tenerezza”. Ma se essa può andar bene per gli altri film, non è sufficiente per Le due inglesi, perché questo film mostra che dietro alla tenerezza dello sguardo c'è la morte e la crudeltà dei rapporti umani.

– Non so. Non sono io che pronuncio le parole “tenerezza” o “crudeltà”… Spetta a coloro che vedono i miei film scegliere le parole più adatte per definirli e qualificarli.

Ne Le due inglesi c'è molta tristezza, forse si tratta del suo film più triste. Quest'opera riflette un momento particolare della sua esistenza?

– Forse è proprio così.

Mica scema la ragazza invece è un film completamente diverso, perlomeno in apparenza, perché il tono generale dell'opera è scanzonato, da commedia comica. Non so come sia stato accolto in Francia, ma in Italia è stato sottovalutato. Si è pensato di classificarlo subito tra le opere minori, e di considerarlo come un lavoro fatto per rimediare all'esito poco soddisfacente de Le due inglesi. Personalmente ritengo che Mica scema la ragazza si innesti benissimo nella tematica espressa dai suoi film più famosi (basterebbe pensare che il modello ispiratore del film è Jean Renoir, cui lei costantemente si richiama). La differenza tra i due film non consiste tanto nei contenuti, quanto nel linguaggio usato. Che cosa vuoi dire in proposito?

– Dopo aver provato la forma delicata e morbida, un po' “malata” de Le due inglesi, ho intrapreso Mica scema la ragazza come un'esperienza di vitalità, allo stesso modo con cui ci si sforza di fare della ginnastica quando, un mattino, ci si è svegliati con le membra intorpidite. Penso che sia Le due inglesi, che non contiene una sola scena “divertente”, sia Mica scema la ragazza, che non contiene una sola scena seria, abbiano un punto in comune: distruggere, o mostrare di distruggere, l'amore romantico. Da questo punto di vista Effetto notte, che riprende il tono della commedia drammatica che è abitualmente il mio, è un film di riconciliazione dell'autore con se stesso.

Questo film ricorda un lavoro, per alcuni versi simile, di qualche anno fa, interpretato sempre da Bernardette Lafont e diretto da Nelly Kaplan che si intitolava La fiancée du pirate [nell'edizione italiana Alla bella Serafina… piaceva far l'amore la sera e la mattina]. Nel girare Mica scema la ragazza aveva presente quel film?

– Ho amato molto La fiancée du pirate di Nelly Kaplan, la quale a sua volta aveva amato molto La sposa in nero di François Truffaut! Quanto a Bernadette Lafont, abbiamo debuttato insieme, io e lei, nel 1958, con Les mistons.

Una delle scene più interessanti del film, a parte i gustosissimi quadri di provincia francese, è quella del ragazzino che permette di scoprire l'innocenza di Camilla con il suo filmino a 8mm. Qualcuno ha creduto di ravvisare nella sequenza di quel bambino una garbata presa in giro della nouvelle vague unita ad una punta di simpatica autocritica. È vero?

– Se con quel ragazzino ho voluto prendermi gioco di qualcuno, non può trattarsi che di me stesso!

Il bambino costituisce da sempre il punto di riferimento dei suoi film. Siamo arrivati così a Effetto notte. È fuor di dubbio che la scena del regista Ferrand che da ragazzino si reca di notte a rubare le locandine del cinema è autobiografica. Essa corrisponde ad una indicazione sui generis oppure testimonia di un fatto realmente accaduto?

Citizen Kane è uscito in Francia nel luglio del 1946, ed è un film che ha determinato il maggior numero di vocazioni alla regia, compresa la mia. Ho voluto ricordarlo.

Effetto notte è il film in cui emerge più chiaramente la matrice autobiografica del suo cinema perché, più che fare un film, lei ha voluto far vedere come Truffaut gira un film. È possibile ritenere allora che tutto quello che Ferrand dice sul cinema sia il suo pensiero, oppure si tratta di un personaggio di finzione anch'esso che Truffaut rappresenta senza per questo riconoscervisi del tutto?

– Entrambe le cose, come preferisce lei.

Effetto notte è un film stupendo nel quale finalmente lei è riuscito a comunicare tutto l'amore che nutre per il cinema. Al tempo stesso è come una liberazione, dopo la quale bisogna ricominciare da capo. Come pensa che sarà il suo prossimo film, ancora un soggetto originale oppure di derivazione letteraria, come la maggior parte delle sue opere?

– Se do uno sguardo indietro al mio lavoro mi accorgo che generalmente riesco a farmi capire meglio attraverso un soggetto originale che con l'adattamento di un romanzo. Credo dunque che cercherò di scrivere dei soggetti originali.

Torniamo un po' indietro, per parlare del Ragazzo selvaggio. Questo film ha diviso il pubblico: c'è stato chi ha inteso il film come un elogio del ritorno alla natura e chi, al contrario, ha preferito il significato opposto, cioè un discorso sulla lotta dell'uomo per uscire da una natura selvaggia mediante la conoscenza e la cultura. Qual è secondo lei, l'interpretazione più fedele?

– Avevo letto nel 1966 su «Le Monde» un articolo basato sulla tesi di Lucien Malson sui “ragazzi selvaggi”, cioè quei ragazzi privati fin dall'inizio di ogni contatto con gli uomini e cresciuti, per una ragione o per l'altra, nell'isolamento. Credo che la forza della storia di questo film risieda nella situazione: questo ragazzo è cresciuto al di fuori della civiltà, a tal punto che tutto quello che fa nel film, lo fa per la prima volta. A mio avviso, ogni passo in avanti costituisce già un risultato formidabile ed il film trae la sua forza da tutti questi passi in avanti accumulati. Quanto alla morale della storia, lo studio di Malson vi insiste parecchio e io penso che nel film sia resa abbastanza chiaramente: il dato naturale ci viene dall'ereditarietà, ma quello culturale non può provenire che dalla educazione. Da qui l'importanza di questa educazione e la bellezza del tema.

Perché questa volta ha interpretato direttamente il ruolo del dottor ltard al posto di farsi rappresentare sullo schermo, come d'abitudine, da Jean Pierre Léaud?

– Non so se ho avuto ragione o no di interpretare quel ruolo, non so se sono un buono o un cattivo attore, ma non rimpiango questa mia decisione. Sento che se avessi affidato il ruolo del dottor ltard a un attore, sarebbe stato questo il film da cui avrei avuto minori soddisfazioni perché non avrei fatto che un lavoro tecnico. Avrei detto per tutta la giornata ad un signore: «Adesso, prenda il ragazzo, gli faccia fare questo, lo porti là», mentre tutto ciò, avevo voglia di farlo io. Sono contento d'averlo fatto. Dal giorno in cui ho deciso di interpretare Itard, il film ha avuto per me una ragion d'essere completa e definitiva. Da questa esperienza non ho tratto comunque l'impressione d'aver interpretato un ruolo ma semplicemente d'aver diretto il film davanti alla cinepresa e non dietro, come al solito.

Si sostiene che il suo sia un cinema borghese, e che come tale, esprima sentimenti e idee borghesi in una forma tipicamente borghese e le si critica il fatto di non aver mai girato un film d'impegno politico. Che cosa vuoi rispondere a questo proposito?

– Non so se i miei film siano borghesi, so solamente che mi rassomigliano e che ho la possibilità di girarli in piena libertà. Vorrei fare dei progressi ma non desidererei filmare nessun'altra cosa. So che i film politici sono di moda oggi, ma, per quel che riguarda il cinema italiano, nessun film politico mi ha affascinato quanto Vaghe stelle dell'Orsa, Morte a Venezia, Otto e mezzo, Il sorpasso, Viva l'Italia Nostra Signora dei Turchi. Ho amato molto anche La Cina è vicina. La politica mi interessa ma non mi appassiona ed io penso sinceramente che, nella storia dell'Inghilterra, Charlie Chaplin sarà più importante di Winston Churchill. Non capisco come si possano nutrire dei sentimenti di ammirazione per un uomo politico. Penso che gli si debba soltanto chiedere d'essere efficace e modesto. Del resto, la mia natura mi spinge a fare dei film per e non contro, poiché io ho bisogno di amare gli attori e i personaggi che essi incarnano, sullo schermo. Ho fatto dunque film a favore dei bambini, delle donne e dei libri. Non potrei fare altrimenti.

Nei suoi film la donna ha sempre un ruolo decisivo, è più profonda e matura, perché determina con le proprie azioni e i propri sentimenti l'esistenza della coppia ed il cambiamento della morale corrente.

– È vero. Nel mondo d'oggi le donne sono più “complesse”, sono più convinte di quello che pensano e che vogliono, e se la società cambia, è per 1'80% merito loro.

Una domanda d'ordine generale: ritiene più espressivo il bianco e nero o il colore?

Il bianco e nero è più espressivo, più poetico, più efficace e più logico.

Lei pensa che il suo modo di fare cinema possa essere di qualche utilità per gli altri?

– Penso di sì, per quelli che assomigliano al ragazzo che ero e che si interessano al mio lavoro al punto da rivedere più volte ogni film: questi sono gli spettatori ideali. Gli altri, spero di intrattenerli con semplicità e in buona fede, senza costringerli ad aderire con i mezzi della intimidazione o dello snobismo.

Vuole aggiungere qualcos'altro?

– Vorrei soltanto aggiungere che un cineasta deve scegliere i suoi soggetti liberamente, senza lasciarsi impressionare né dal potere costituito né dalle idee alla moda e che la più grande qualità di un uomo è quella di rimanere naturale.