Giulio Questi, un Buñuel della Val Brembana

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Cinquant'anni esatti fa veniva recensito su «Cineforum» Arcana di Giulio Questi. Nato a Bergamo, Questi partecipa alla Resistenza (esperienza di cui narrerà nella notevole raccolta di racconti Uomini e comandanti), poi si trasferisce a Roma per vivere la fase più intensa della vita culturale e cinematografica italiana. Regista di svariati corti, i suoi lungometraggi sono solo tre: il violentissimo spaghetti-western Se sei vivo spara, il dramma borghese in chiave noir La morte ha fatto l'uovo e l'horror misterico-sociale Arcana. Opere originalissime, che gli fanno guadagnare, da parte di Oreste Del Buono, la definizione di «Luis Buñuel della Val Brembana». A seguire, un ampio estratto dalla scheda apparsa su «Cineforum» n. 114, maggio-giugno 1972, in forma di dialogo a tre fra i collaboratori storici della rivista Ermanno Comuzio, Achille Frezzato e Claudio Lucato.

 

Arcana di Giulio Questi

Achille Frezzato – Arcana è caratteristico di Questi e, come sempre nei suoi film, anticipa un discorso che il cinema italiano porterà avanti entro i suoi schemi produttivi. Questi inserisce sempre un discorso serio entro generi di largo consumo, come la condanna della violenza nel “western all'italiana”, quella del profitto nel “giallo orrorifico” e, qui, una riflessione sulla distruzione da parte del mondo contemporaneo di antichi valori ancestrali, entro i moduli di un filone che sembra avrà ampio sviluppo commerciale, quello della magia, dei riti stregoneschi eccetera. Tutto ciò senza rinunciare alle possibilità offerte dal cinema di consumo, anzi esasperandole in una scrittura “eccessiva” violenta, nutrita addirittura di una certa componente sadica verso un pubblico che Questi sembra voler “violentare” (in linea con i caratteri tipici dell'uomo-Questi, oltre che del regista).

Questa posizione si può spiegare col passato di Questi, autore di documentari d'impegno civile e sociale, svolti con assoluto rigore (e che si articolavano soprattutto intorno ai cambiamenti che l'uomo era costretto a subire per l'avanzata dell'industrializzazione e dall'evolversi della vita sociale). Così, passando al lungometraggio, Questi immette in schemi già “preparati” i motivi del documentarista, dell'autore attento ai problemi dell'uomo; e ciò perché l'industria cinematografica non gli permette di svolgere discorsi diretti, interamente impostati su argomenti d'impegno sociale.

Arcana segna una evoluzione in questo “meccanismo” in quanto è realizzato un po' al di fuori dei collaudati canali di produzione e di distribuzione: diciamo che è quasi una produzione indipendente, basata sulla fiducia del produttore Palumbo, sulla collaborazione del soggettista-montatore Franco Arcalli, sulla contenuta spesa (mi pare trecento milioni, compreso il compenso a Lucia Bosè!) e sulla ricerca “artigianale” della distribuzione. Anche per il modo di “girare” per le strade, dal vivo senza ricostruzioni, senza permessi Questi è tornato in certo senso alle esperienze documentaristiche.

 

Ermanno Comuzio – Vediamo di avvicinarci, se possibile, a una corretta lettura del film, di districarci fra i simboli e le allusioni di cui è irto. Il discorso di Questi è indiretto, offerto “di fianco”, ma offre a mio parere alcune “chiavi” di decifrazione abbastanza risolutive, anche perché ripetute attraverso l'arco narrativo fino ad assumere addirittura la funzione di “leit-motiven”. Mi pare infatti che il grosso rapporto madre-figlio, su cui naturalmente torneremo, sia nutrito di due motivi ricorrenti e determinanti: la presenza del tunnel della metropolitana e quella dei bambini. Il tunnel è una delle realizzazioni della civiltà industriale, e ha ingoiato il padre del ragazzo, restituendo alla famiglia un libretto di pensione che non basta a tirare avanti decentemente. Se la madre è una maga, il tunnel è a sua volta un luogo magico, misterioso, di incantamenti cattivi, o almeno così appare a prima vista, con i suoi “uomini degli abissi”, veri e propri nibelunghi incatenati come schiavi nell'oscurità ad edificare una ricchezza che non gli apparterrà, con i suoi angoli bui, inesplorati, rifugio di cose marcescenti e di cadaveri abbandonati. Ma è nel tunnel che il ragazzo, l'“apprendista stregone”, sa vedere fenomeni e materiali (l'escrescenza sul fondo, specie di fungo o di stalagmite) che celano in sè forze dirompenti, ed è nel tunnel che gli uomini ridotti a ombre, di larve sempre sul punto di essere cancellate (le disperate invocazioni d'aiuto contro i finestrini illuminati ed ermeticamente chiusi della metropolitana affollata di passeggeri), maturano la loro rivolta. Una discesa agli inferi, dunque, quella del ragazzo, da cui risale come in antichi miti rigenerato dalle forze ricevute dal contatto con la terra.

I bambini sono a loro volta vittime di una situazione che, cancellando i valori primordiali, la presenza della natura, gli insegnamenti ancestrali, gli spazi aperti, li condanna a essere emarginati, a vivere asfitticamente in angoli di cemento, su ballatoi da cui il cielo non si vede mai, a mettersi in posizione di conflitto con i “grandi”, a inventarsi giochi strani, inquietanti. Creandosi da soli, insomma, un loro mondo e, a loro volta, una dimensione fantastica e magica in cui li raggiunge il ragazzo, l'unico che si faccia loro compagno di giochi e che anzi inventi per loro dei “giochi” nuovi (come l'assalto crudele al giovane omosessuale di passaggio, torturato a morsi dai bambini).

Frezzato – Il rapporto adulti-bambini è importante. Mentre gli adulti sono perfettamente inseriti nella società livellatrice, ormai priva dei caratteri originari, i bambini sono ancora attivi e reattivi nei confronti della natura, tanto è vero che entrano appunto in una relazione di amicizia solo con il figlio della maga, il quale non ha ancora rotto con la natura e con gli uomini.

 

Claudio Lucato – A me interessa molto il rapporto madre-figlio. Chi è la madre? Medium, maga, fattucchiera, spiritista, chiamiamola come vogliamo. Nonostante sia stata provata dolorosamente dall'ingiustizia sociale di coloro che detengono il potere, non tenta come reazione di lottare, ma passa dalla parte degli oppressori. Infatti con la sua attività non fa che sfruttare a scopo di lucro personale le debolezze degli oppressi, aiutandoli, se così si può dire, a sfogare tutte le loro sofferenze, il loro disagio ma in maniera sterile, poiché queste pratiche magiche sono una valvola di sfogo che impedisce una vera presa di coscienza sociale. Consolati, costoro sono insomma distolti dal portare alla luce del sole, in piazza, violenta e traumatizzante, la loro rivolta. In questo la madre è complice dell'“establishment” del potere. Il figlio, all'inizio, segue con distacco l'attività della madre. Poi s'incuriosisce, studia la madre, fa esperimenti per conto suo. Ma scopre anche che la madre mente ai clienti, che nasconde loro le verità “cattive” e che è reticente di fronte a determinate richieste precise. Il figlio ora è titubante.

A questo punto il figlio con la violenza obbliga la madre a svelarle il segreto: il potere soprannaturale della maga risiede solo nella facoltà di mettere paura al prossimo. Alquanto inebriato dalla scoperta, il figlio si comporta come la madre, passa dalla sua parte (aiutato in ciò dal complesso edipico). Ma è un'ebbrezza momentanea. Il figlio è sempre stato più attento e sensibile ai problemi sociali, che si erano proposti a lui subito dopo la morte del padre. Nel finale, dopo che soltanto lui ha “partecipato” alla cerimonia in cui la ragazza-cliente muore, il figlio si trova in mezzo alla rivolta. La madre dall'altro lato della strada lo vede, ed egli rimane un attimo titubante: tornare da lei, dalla parte di coloro che seguono pedissequamente i detentori del potere, o mettersi dall'altra parte, con i colleghi del padre, con gli oppressi, con gli insoddisfatti? Decide per questi ultimi e li segue, mentre la madre nel tentativo di raggiungerlo (per dissuaderlo?) viene colpita da una pallottola e muore.

Comuzio – Certo, questo rapporto dialettico madre-figlio è importante, ma io non lo vedrei in questo modo. Così come non vedo che l'aspetto socio-politico sia l'unico tema del film. Per me la madre ha davvero poteri magici, ma è spaventata dal suo stesso potere («Ci sono cose nella vita che nessuno può governare», dice), e il segreto che sussurra alle orecchie del figlio è un segreto orribile, importante, risolutore. La magia, nel film, ha per me un valore positivo. Non magia come superstizione, ma anzi come testimonianza di antichi ed eterni valori, espressione di sapienza legata alla terra, valorizzazione dei legami dell'uomo con il mondo e con la natura, Madre di ogni cultura (cultura vera, autentica, che la società odierna tende ad obliterare).

Colleghiamo questo motivo con quello del difficile innesto del mondo del Sud con quello del Nord, della mortificazione subita nelle nostre metropoli del Settentrione dai valori etnici di una civiltà rurale, ancora impregnata di animismo, di spiritualità, di fede nel meraviglioso, e soprattutto espressione della comunione fra l'uomo ed il mondo di cui fa parte, fra la creatura (uomo, animale, vegetale, o anche secrezione) e la matrice. Il rullo compressore della rincorsa al benessere, e della conseguente spersonalizzazione dell'uomo, tende ad annichilire le forze occulte, il mistero, la magia, ma queste forze sono in fondo sempre le più forti, perché risorgono nonostante tutto (la vegetazione che provoca le crepe nell'asfalto del marciapiede), perché sono sempre dentro l'uomo che sa essere tale. Profonde sono le radici, e non riusciremo facilmente a tagliarle (non si devono tagliare, pena la perdita dell'umanità nell'uomo).

Tipico, per me, il valore della sequenza del ballo rusticano, proprio di una ruvida ma genuina cultura popolare, eseguito in casa della madre in una atmosfera di religiosa intensità, dove tutto davvero può accadere, collegata alla visione del violinista che esegue una nenia ossessiva, immerso in una campagna abbacinata dal sole, e a quella dell'asino sollevato sulla facciata della casa. In realtà, però, questo momento non è surreale, anzi è il più reale di tutti, il più concreto, perché espressione di quella cultura che ci lega a sé in un grande abbraccio, perché viene davvero dal profondo dell'animo e della mente dell'uomo, di ieri come di oggi. C'è una continuità che non si può disconoscere, in queste cose: essere moderni significa anche questo.

Frezzato – La magia è la facoltà di incorporare tutto quello che è fuori di noi, quello che ci circonda, di farlo nostro e di mantenere con queste forze un rapporto, che è vitale. Ricordiamo gli studi fatti da Ernesto De Martino sul Sud e la magia, dove la magia è in certo modo una valorizzazione dei sentimenti dell'uomo, espressione della coscienza, patrimonio autentico di tutti (valori culturali e cultuali). Vediamo nel film che quando il figlio prende coscienza dei valori della sua cultura, della cultura da cui proviene, valori essenziali in quanto mantengono il collegamento fra uomo, ambiente e natura, e si avvede che questi valori sono costantemente e sistematicamente obliterati dal mondo in cui si è inserito, unico rimedio radicale per ripristinare tali valori gli appare la rivolta: per questo il film si chiude sulle immagini del violinista paesano, della terra invasa dal sole, dell'asino issato sul tetto, immagini di una conferma, trionfo di una concezione.

 

Lucato – Per me la sequenza del violinista e del ballo (che ritorna a chiudere il film) ha un diverso significato. Molto qui mi appare oscuro. Che valore ha tutta la scena del ballo e della campagna meridionale? Un rimorso per aver abbandonato il Sud, dove ci si accontentava di poco ma si era onesti e si sopportava tutto in silenzio (mentre qui nel Nord si inganna la gente con le arti para-magiche)? Il mondo rurale del Sud è messo a confronto con quello industriale del Nord, certo, ma perché la maga si sente male e vomita rospi? Sono rospi di rimorso, sono un sintomo del suo malessere, del suo sentirsi indegna? E l'asino, sta forse a significare che in una civiltà rurale tale animale è innalzato nel concetto dell'uomo a compagno di lavoro in contrapposizione alla civiltà industriale dove lo si trova marcescente ai margini della periferia o è forse il simbolo dello sfruttamento? Comunque a me pare che la sequenza ripetuta nel finale esprima sostanzialmente una concezione di vita che muore, un tipo di civiltà che scompare. La realtà della città del Nord, con le sue lotte di classe, la sua coscienza civica, prevale e oblitera quella del Sud, passiva, paziente, tollerante.

 

Frezzato – Io direi che in Arcana sono presenti diversi motivi. Uno è quello dell'amore edipico che lega il protagonista alla madre e del tentativo (riuscito) di rompere questo legame. L'altro è quello della moderna metropoli industriale che, come un Golem, divora, distrugge coloro che dedicano la loro vita a costruirla, minandone l'esistenza ed alterandone il bagaglio culturale, fatto di tradizioni e di conoscenze organizzatesi in più sani orizzonti, in uno stadio sociale primigenio, quasi tribale, d'esistenza. Altro motivo è infine quello schiettamente politico, che indica nei meridionali e negli strati poveri della popolazione italiana le sacche indigene del sottosviluppo, e addita nel ricorso al loro “humus” culturale l'alternativa all'alienante struttura sociale.

C'è da aggiungere che d'accordo in ciò con quanto ha scritto Moravia su questo film l'aspetto edipico della storia si riallaccia a quello politico, in quanto nel protagonista si compie una educazione sentimentale ed una maturazione civica. Il figlio, infatti, rifiuta a un certo punto il legame con la madre e scende in lizza con lei “nel nome del padre”. Vince il padre, colui che è morto sul lavoro, e vince ponendo decisamente la sua rivolta sul piano politico, cioè unendosi agli operai che si ribellano.