Le avventure di un gatto nella controcultura americana

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Cinquant'anni fa usciva nelle sale italiane il lungometraggio d'animazione Fritz il gatto di Ralph Bakshi. Tratto dall'omonima striscia a fumetti di Robert Crumb, è una storia popolata da animali antropomorfi fra i quali spicca il Fritz del titolo, gatto studente universitario che, dopo aver abbandonato gli studi, va incontro a diverse avventure legate tutte all'atmosfera della constestazione, delle rivendicazioni sociali e della controcultura dell'America degli anni 60, per approdare, dopo varie peripezie, al tranquillo rifugio del libero amore. Primo cartoon segnalato esplicitamente dalla Mpaa come “per adulti”, pirotecnico e ancora adesso assai gustoso nella sua satira ad alzo zero su tutto e su tutti, può apparire un po' datato, ma continua a regalare un certo divertimento. Se vi capita, e avete dimestichezza con lo slang, evitate l'edizione italiana, e godetevi quella originale. Ermanno Comuzio recensì il film in una scheda uscita sul numero 118, ottobre/dicembre 1972, di «Cineforum».

«Arriva il pornogatto!»

La prima caratteristica di questo film è che si tratta di un lungometraggio a disegni animati per adulti. È anzi vietato rigorosamente ai minori di anni 18. La pubblicità fa il resto: «Arriva il pornogatto!», «Non per nulla siamo vietati ai minorenni» e simili. Sta di fatto che Fritz il gatto è davvero un cartoon adulto, non certo rivolto ai bambini. La priorità del film, in questo ambito, non è assoluta; il disegno animato rivolto agli adulti è sempre esistito. Addirittura anche prima dell'invenzione del cinema, da quando Caran d'Ache animava le ombre allo “Chat Noir” nella Parigi del Secolo scorso, scandalizzando per l'audacia dei disegni i borghesi dell'epoca. Ma poi basta pensare ai fantocci di Emile Cohl; alle silhouettes di Lotte Reiniger; alle ricerche formali di Oskar Fischinger; ai temi sociali di Franz Masereel e Bertold Bartosch, autori di una impegnatissima Rivolta delle macchine; a Max Fleischer e alla sua Betty Boop, audacissima vamp disegnata; a John Hubley e ai suoi apologhi socio-esistenziali; agli inglesi Halas e Batchelor con la loro versione di La fattoria degli animali; al francese Paul Grimault con i suoi deliziosi racconti “democratici” (Il piccolo soldato, La pastorella e lo spazzacamino, Il ladro di parafulmini); al canadese Norman McLaren con il suo furioso sperimentalismo; e a quasi tutti i realizzatori d'Oltrecortina, che ai film per ragazzi alternano produzioni rivolte agli adulti.

Questo per dire soltanto di alcuni aspetti della produzione animata ormai “classica”, poiché in tempi più vicini a noi numerosissimi sono gli autori che prescelgono un pubblico di adulti per i loro lavori, talvolta indirizzandosi contemporaneamente anche ai piccoli (come per i nostri Bozzetto – ma negli shorts, a parte il Signor Rossi, è decisamente “per grandi” –, Pino Zac, Luzzati e Giannini, Cavandoli), talaltra rifuggendo nettamente da temi favolistici o genericamente avventurosi-fantastici (come il belga Raoul Servais e il giapponese Yoji Kuri). Lasciando stare, naturalmente, i film animati creati non per il divertimento ma per scopi pratici, come la didattica.

Certo, tutto quanto è stato detto riguarda il settore, più che altro, del corto e mediometraggio, che come si sa ha (da noi non ha) un tipo particolare di circolazione, e un tipo particolare di pubblico. Tra i lungometraggi veri e propri, quindi rivolti al normale pubblico delle sale cinematografiche, abituato allo spettacolo “completo” e autosufficiente, quello che di recente si è rivolto agli adulti è semmai The Yellow Submarine di George Dunning. Ma anche questo, adorno com'è delle canzoni pop dei Beatles e fiorito di immagini giovanilmente... rivolte all'indietro, cioè a mode figurative “revivaliste”, di tipo piacevolmente decorativo, è un tipo di film “allegro”, gradevole, divertente, insomma “ameno” nel senso che questo termine ha attribuito alla letteratura di facile consumo e di tranquilla digestione.

 

I gatti e i fatti

Fritz il gatto, in pratica, è il primo lungometraggio animato che rifiuta le combinazioni “per grandi e piccini” per proporre discorsi seri su reali situazioni drammatiche, cioè tutt'altro che generiche e “universali”, e che adotta situazioni, segni e linguaggi tali da apparire decisamente “spinti” anche per lo spettatore abituato agli spettacoli cinematografici “dal vero” che attingono a piene mani dalla permissività dell'attuale società.

Questo discorso, si badi, è svolto attraverso un personaggio che è indubbiamente il più classico nella tradizione dei cartoon: un gatto. La storia dei disegni animati è infatti piena di gatti. Dal primissimo, Krazy Kat di George Herriman (creato nel 1911), l'antenato dei gatti folli dello schermo e già retto dalle leggi dell'assurdo, attraverso Felix the Cat (cioè Mio Mao) di Pat Sullivan, fino ai gatti di Walt Disney (Gamba di Legno, il bieco nemico di Topolino, ma anche tutti i gatti maggiori o minori dei lungometraggi, come il gattone a strisce di Alice, quello luciferino – si chiama infatti Lucifero – caro alla matrigna di Cenerentola, il gattino domestico di Geppetto in Pinocchio, e così via). Ma ecco poi altri tipi di gatti: il Silvestro “gatto maldestro” di Fritz Freleng per la Warner Bros e il Tom di Fred Quimby della serie Tom & Jerry della Metro. Fino a Disney si tratta di gatti vittoriosi, audaci, fiduciosi nella loro buona stella (chi, infatti, ha allora paura del lupo cattivo?); posteriormente, cioè nel dopoguerra, sono poveri diavoli di gatti grandi e grossi che le pigliano sode da tutti (Silvestro, oltre che dal solito nemico secolare, il topo, le prende anche da Titti, canarina infante ma diabolicamente ipocrita).

Fritz il gatto ha caratteristiche nuove. Nasce nel 1965 dalla matita di Robert Crumb, giovane disegnatore di Philadelphia residente in California. Il regista Ralph Bakshi («Antipatico giovanotto sui trenta che pare un pugile e parla balbettando con un incredibile numero di difetti di pronuncia», così lo descrive Lietta Tornabuoni sul «Linus» di giugno 1972), acquista i diritti del libro e ne fa un lungometraggio animato, lavorandoci su due anni e spendendo in tutto oltre un milione di dollari. Bakshi resta fedele ai personaggi e alle loro caratteristiche: di suo ci aggiunge il movimento, naturalmente, oltre al colore, alle voci e ad alcune soluzioni grafiche (l'intero episodio della sinagoga, per esempio, è nuovo rispetto al libro).

“Sgradevolezza” del segno e dei personaggi

Gli autori di questo film esprimono, attraverso il disegno animato, le loro idee su alcuni dei nodi più drammatici dell'America degli anni 60 (la vicenda è chiaramente datata), impersonificandole in un personaggio tipico, lo studente che del dissenso ha fatto la sua principale attività. Ma che tipo di dissenso?

Il discorso è amaro, sotto l'aspetto becero e fracassone di questo gatto sfrenatamente pomicione e menefreghista e sotto il grottesco esasperato in cui si risolvono molte situazioni, come l'orgia nel cesso, l'escursione nella casa nera di piacere, il comportamento dei due poliziotti eccetera. Tutto il film, d'altronde, è un “grottesco” per definizione, in quanto traspone su personaggi fantastici (o addirittura mostruosi, nel doppio senso di mirabili e di repellenti) azioni e sentimenti umani. Disegno animato antropomorfico, quindi, come nei film di Walt Disney, ma in mezzo c'è un abisso: se Disney e i suoi collaboratori e successori continuano imperturbabili per la loro strada con le dolci suggestioni colorate-musicali all'insegna dell'ottimismo, esattamente come negli anni 30 e 40, gli autori di Fritz il gatto tengono conto di ciò che avviene oggi nel mondo. La molla di Crumb e Bakshi è la “rabbia”, o almeno la coscienza delle contraddizioni che straziano la vita sociale americana.

Aver scelto un protagonista come il gatto, tante volte eroe positivo del cartoon Usa, è soltanto un modo in più per “contestare” la concezione del disegno classico, quello consolatorio e ambasciatore dei buoni sentimenti; un'irrisione in più, un modo ulteriore di sconsacrazione dell'universo bamboleggiante disegnato dai fumettari. Questo Fritz, infatti, è il tipico giovanotto americano che si trova al centro di un'America dura, drammatica, dilaniata dagli avvenimenti (Vietnam, razzismo, Nixon, movimenti studenteschi, sesso, droga, gruppi eversivi, Greenwich Village, repressione, delinquenza eccetera), insomma l'“America amara” dei giorni nostri.

Il segno e il colore definiscono esattamente questa visione della realtà, sia pure deformandola. Gli sfondi sono quasi sempre scuri, lontanissimi dagli esterni rosei e acquarellati degli sfondi disneyani, le linee sono tracciate con libertà e approssimazione, senza l'uso di squadre e di righelli, per cui case, strade, pareti formano un universo dai contorni indefiniti, talvolta addirittura tremolanti. In ciò il regista segue d'altronde le indicazioni dei disegni originali di Crumb, dove anche le linee di demarcazione dei singoli quadratini in cui è suddivisa la strip sono tremolanti. Questo succede specialmente quando vi sono personaggi in piano ravvicinato o in primo piano; gli esterni inquadrati in campo totale (le strade di New York riprese dall'alto, per esempio) sono tutt'altro che sommari e anzi minuziosamente disegnati con un intrico di linee fitte fitte, anche se sempre tracciate un po' alla brava.

L'effetto è quello di un mondo baroccamente sovraccarico, ma insicuro e provvisorio. Di un mondo, diciamolo pure, “brutto”: la New York del film infatti è sporca, oscura, irrequieta, un pentolone ribollente. È proprio questa, di rifuggire dal “bel” segno, l'intenzione degli autori. Vediamo anche i personaggi, che sono i più inquietanti che si siano mai visti in un cartoon, in quanto non si tratta dei draghi e dei mostri della tradizione (come l'orrida strega di Biancaneve o gli scheletri della Notte sul Monte Calvo), ma di personaggi “comuni” che rappresentano il lato consueto della vita. Si tratta in effetti di un bestiario singolare, in apparenza simile a quello fiabesco: sono volpi, cani, conigli, gatti, maiali, cavalli, faine, lucertole, corvi, formichieri, che innestano sulle loro caratteristiche essenziali di animali precisi elementi umani (vestiti, atteggiamenti, attributi, eccetera), ma la commistione animale-persona è singolare per il rifiuto della piacevolezza nei contorni e nei colori. Il segno è senza grazia (i grugni, i becchi, le code, le squame sono tocchi addirittura sgradevoli) e i personaggi diventano ancora più brutti di quel che sono in determinate circostanze (risse, sevizie, morti, eccetera) quando i contorni vengono deformati e certe linee diventano addirittura a zig-zag.

Lo sconquasso e le iperboli del gatto Tom, così pazze e pirotecniche, sono chiaramente un allegro gioco retto sull'assurdo, sul piacere di sballarle grosse; le violenze di Fritz il gatto si leggono invece tutti i giorni sui giornali. Inoltre, tali animali hanno per la prima volta precisi attributi sessuali, e anche se si tratta di attributi disegnati, la loro esibizione è più “evidente” di quanto non succeda nei film con personaggi in carne ed ossa (strano ma non tanto, se si pensa all'assuefazione cui ci ha indotto l'inflazione di nudi “veri”). La carica provocatoria di questi personaggi è completata dal loro dialogo, che è decisamente “audace”, non tanto per l'uso sporadico di locuzioni e parolacce, cui ci ha abituato anche l'“altro” cinema, quanto per la sua aderenza sistematica e continuativa ad un linguaggio parlato di tipo diciamo così goliardico, com'è d'altronde d'uso corrente in moltissimi ambienti.

Itinerario verso il disimpegno

Le situazioni, dal canto loro, sono commisurate a questo tipo di scelta figurativo-espressiva. Basta pensare al paradossale party nel bagno dell'appartamento al Village o al comportamento dei neri (corvi Jim Crow, ossia corvo, è il nomignolo dei neri americani) nel bar, o alla rivolta ad Harlem (con la bellissima pagina della morte di Duke, il nero giocatore di biliardo che, colpito a morte, vede la vita sfuggirgli sotto forma di una partita di biliardo al rallentatore, dove l'ultima buca coincide con l'esalazione del suo ultimo respiro).

Ma qual'è, occorre chiederci a questo punto, il pensiero degli autori sulla realtà da loro rappresentata? Si potrebbe credere, assistendo alle diverse vicende “esemplari” vissute da Fritz, ad un itinerario pedagogico, a una conquista (della maturità, della coscienza, eccetera) dopo una serie di prove diverse. Peter Buckley, su «Films and Filming», parla esplicitamente di Fritz come di un Candido dei nostri tempi che, dopo una serie di esperienze, torna alla morale che gli è propria, cioè all'amore e alla baldoria, ormai distaccato dalle avventure politiche. In realtà, i viaggi di Candido attraverso la ragione qui non c'entrano: Fritz è sempre stato un personaggio dissociato dai problemi che sfiora, sempre e in ogni occasione compreso soprattutto del suo edonistico egoistico esistere. Con alcuni “abbellimenti” di moda. Proclama ai “fratelli neri” il suo antirazzismo e il suo amore sviscerato per loro; quando è eccitato dalla droga incita la gente di Harlem alla rivolta; provoca i poliziotti; si offre per far saltare in aria la centrale elettrica. Ma i neri ne capiscono l'atteggiamento sentimentale e lo snobbano, mentre le donne nere lo umiliano; la popolazione di Harlem gli prende la mano; conclude le gesta “eroiche” nascosto in un bidone della spazzatura; tenta invano, all'insegna del “chi me lo fa fare”, di spegnere all'ultimo momento la miccia dell'esplosivo affidatogli, e salta in aria ugualmente perché “sacrificato” dal disprezzo degli estremisti.

Fritz, insomma, non appartiene ad alcuno dei mondi in cui cerca di realizzare le sue confuse aspirazioni ideologiche. Il quadro è estremamente pessimistico. Direi disperato: mentre gli studenti contestatori di Fragole e sangue e di L'impossibilità di essere normale fanno l'altalena fra integrazione e apocalisse per l'ossequio che i loro autori portano alla moda giovanilistica, gli autori di Fritz il gatto fanno fallire il loro protagonista, sul piano dell'impegno civile, per un preciso sentimento di profondo scetticismo nei riguardi di un personaggio-tipo del nostro tempo: quello che parla tanto, si agita tanto, si butta in tutte le direzioni e si autoesalta (magari al suono di We Shall Overcome), e si ritrova al punto di partenza, dopo aver sollevato soltanto della polvere e aver semmai contribuito ad allargare i solchi che credeva di dover colmare. Come è stato detto, Fritz subisce la violenza e nello stesso tempo la pratica: il cerchio si chiude.

Da una parte, dunque, il riconoscimento (anzi, il rifiuto) di un modulo di vita, rappresentato dalla repressione – i poliziotti sotto specie suina (i pigs), inetti, stupidi e feroci; gli aviatori che bombardano Harlem – dall'altra la constatazione della stupidità di un certo tipo di assenteismo (la sinagoga popolata da bigotti indifferenti al resto del mondo) e di dissenso. La satira colpisce tutti: Greenwich Village, i bianchi, i neri, i rivoluzionari, i poliziotti, i dinamitardi, le minoranze, i giovani, le ragazze, i drogati, quelli che vogliono abbandonare tutto per un contatto “rigeneratore” con la natura, e così via. Resta il sesso, lo sfrenato esercizio amatorio, che però gli autori vedono come ultimo rifugio di ogni delusione e, in sostanza, come trionfo del “disimpegno”. Altro che disegno animato ispirato ai principi dell'impegno “democratico”! Crumb prima e Bakshi poi se ne fregano, esattamente come il loro personaggio, il quale degli effetti della cultura alternativa sceglie solo quello di immediata soddisfazione personale, sghignando in faccia al mondo e ai suoi problemi.