Il Ferragosto di Cineforum

Le ferie degli italiani in tre epoche diverse della nostra storia

archives top image

Dall'archivio della Rivista, tre pezzi e il ricordo cinematografico attraverso altrettante epoche della storia recente di come gli italiani hanno vissuto le loro ferie e come il cinema italiano le ha descritte, dal primo dopoguerra (“Flashback” a cura di Lorenzo Pellizzari dedicato a Domenica d'agosto di Luciano Emmer, autentico capostipite del genere, «Cineforum» n. 297, settembre 1990), passando per gli anni 60, quelli del “boom” (il brano dedicato a Il sorpasso di Dino Risi dal più ampio, imperdibile saggio di Tullio Masoni e Paolo Vecchi sulla commedia all'italiana "Lo schiaffo al commendatore", «Cineforum» n. 181, gennaio/febbraio 1979), per arrivare agli anni 90 (“Filmese” di Ferie d'agosto di Paolo Virzì a cura di Federico Chiacchiari, «Cineforum» n. 354, maggio 1996).


«Cineforum» n. 297, settembre 1990

Lorenzo Pellizzari/Flashback 1950. Domenica d'agosto di Luciano Emmer

I dati relativi agli interpreti di Domenica d'agosto sono riportati esattamente come compaiono nei titoli di testa del film. La scelta è stata dettata da un motivo pratico: mostrare tutti i nomi che all'epoca si ritenne doveroso porre in risalto ed evidenziare anche la loro successione, dando così modo di scoprire che la presenza dell'esordiente Marcello Mastroianni (allora già noto come attore di teatro) poteva tranquillamente essere preceduta da quella di altri interpreti oggi quasi dimenticati o sconosciuti. Ed ecco subito un motivo che avvantaggia Domenica d 'agosto rispetto all'insieme delle reazioni da esso suscitate al momento della sua comparsa: a parte Mastroianni, Ave Ninchi, Franco lnterlenghi e forse Massimo Serato, i volti non più consueti o riconoscibili degli altri attori conferiscono al film una superiore nozione di realtà e gli assicurano un carattere, oltre che di documento, di vero e proprio documentario sulle abitudini vacanziere e balneari di vari ceti di un'Italia “povera ma dignitosa” quale era quella dei primissimi anni 50. Del resto, di un documentario doveva trattarsi nelle primitive intenzioni di Luciano Emmer (che qui esordisce nel lungometraggio) e solo l'intervento di Sergio Amidei (che qui esordisce come produttore) fece sì che si sviluppasse un soggetto narrativo, anzi mezza dozzina di storie fra loro intrecciate, risolte con il contributo di una piccola schiera di sceneggiatori.

Rapporto dagli anni 50

«Chissà come lavoravano?», si è chiesto recentemente TuIlio Kezich («Panorama», 7 agosto 1988) e la sua arguta risposta è la seguente: «Probabilmente si dividevano vicende e personaggi: io faccio il vigile che mette incinta la cameriera, tu fai il vedovo e l'aristocratica, e via contrattando. Poi Amidei, che come molti bravissimi era un gran prepotente, raccoglieva e mescolava il tutto, fra orgogli feriti e liti furibonde, ed Emmer ci metteva, di suo, la misura, la grazia, il ritmo della narrazione». L'ipotesi, oltre che attendibile, è suggestiva, ma ciò che più conta, in Domenica d'agosto, è il fatto che tutto incredibilmente si fonde e scivola via leggero, pasticciamenti di trama compresi, come un buon tema d'italiano su una giornata di vacanza al mare: anche gli aneddoti un po' troppo fantasiosi, le coincidenze un po' troppo arrischiate o le punte più romanzesche della cronaca filmata vengono rese accettabili dalla sostanziale omogeneità visiva della pellicola.

Proviamo ad accennare alla sua struttura, quella che la pone nonostante l'evidente contraddizione come capostipite del film a episodi che tanto avrebbe infestato il cinema italiano: Domenica d'agosto non è un insieme di storie legato tutt'al più da una cornice, bensì un gioco a incastri (anche abbastanza “sorprendenti”), una serie di incontri, un procedere di azioni in parallelo, che pochi riscontri trova nella nostra storia cinematografica (e che naturalmente non ha nemmeno molti punti di contatto con l'“inchiesta” zavattiniana quale poco dopo si andrà configurando). Nel film v'è un punto di partenza – i vari quartieri della città da cui muovono i personaggi – e un punto d'arrivo che è, a poche ore di distanza, praticamente lo stesso. Da questo punto si sviluppa il duplice movimento collettivo verso Ostia e ritorno e non è difficile intuire anche non conoscendo la geografia specifica che l'asse di trasferimento è ortogonale al secondo asse rappresentato appunto dalla spiaggia. Anche qui è facile identificare la successione dei luoghi. Muovendo da destra verso sinistra, abbiamo la zona riservata alla colonia delle suore, il lido popolare, lo stabilimento esclusivo e, più in là, la zona minata e la pineta ove si sviluppa l'avventura dei “naufraghi” Enrico e Marcella. Il tutto ci è rivelato sia dall'andare alla deriva del moscone sia dal lancio dei manifestini pubblicitari operato dal piccolo aereo e costituisce una precisa fonte informativa non solo per collocare le singole azioni (incrementando il nostro senso di partecipazione) ma anche per distinguere i confini dei vari “recinti” in cui l'azione stessa si svolge (sviluppando anche in noi il senso dei limiti di classe e di funzione sociale cui il film tiene particolarmente). Questa possibilità continua di identificazione dei luoghi soccorre, assai più dell'identificabilità stessa dei personaggi, nel compito di seguire il complesso accavallarsi delle vicende, che spesso non rispetta del tutto una logica oraria o una sintesi del tempo reale, e che si concede invece incursioni ed escursioni qualche volta un po' sconcertanti. Ci si attende, logicamente, che tutto si concluda al tempo e nel modo giusti ma, nonostante tale prevedibilità, la struttura lascia gioco a qualche momento di suspense.

Verrebbe voglia, a questo punto, di dichiarare cult movie un film come Domenica d'agosto, e per motivi assai semplici: la sua sostanziale unicità (un solo caso a parte, anzi un Casotto, come vedremo), il suo fascino rimasto immutato nel tempo (assieme alla sua godibilità effettiva e alla sua invarianza di fondo), la felice fusione vorremmo chiamarla “classica”, da Commedia dell'Arte tra ambiente, vicende, personaggi, e magari anche la sua “moralità”. Vi sono altri aspetti, però, che ostacolano tale definizione e sono, nonostante l'apparente leggerezza del tono e la fragilità dell'assunto, quelli che connotano il film profondamente nel suo tempo e che lo rivestono di aspetti ideologici ben precisi (diciamo marxisti, tanto per non sbagliare). Anche se la critica di sinistra (vedremo anche questo più avanti) non lo accolse con i clamori riservati ad altre “operazioni”, Domenica d'agosto può vantare i suoi meriti nella diffusione popolare di un certo discorso politico comportamentale e a proposito di alcuni temi – sanità del proletariato rispetto ad altre classi, pericoli insiti nei tentativi di arrivismo sociale, importanza del denaro che però può essere “benedetto” o “maledetto” – sviluppa idee piuttosto precise. In questo contesto è maggiormente ammesso il proletario “che sbaglia” (e che per bisogno o perché mal consigliato cade nella tentazione del furto o della rapina), che non il comportamento “disonesto” di chi ha già il beneficio di essere “signore” (e si approfitta di cameriere o di aspiranti stelline). Nello stesso contesto viene proclamato esplicitamente l'orgoglio di essere popolo, la necessità di non varcare incautamente i propri confini di classe, la felicità che deriva dall'essere se stessi e dal guadagnarsi onestamente il pane.

Nell'ambito della moralità vera e propria, Domenica d'agosto rivela invece qualche contraddizione. Opera apparentemente aperta e frizzante, con qualche tocco di spregiudicatezza (in una scena di vestizione in cabina compare persino un timido capezzolo), esso a ben guardare non si discosta dalla morale dell'epoca e, se possibile, la accentua. Di sicuro v'è l'alta considerazione in cui è tenuta la famiglia, anche se fracassona e rissosa come quella dei Meloni; l'invito appena possibile a formarla, questa famiglia ed è il caso del vigile e della servetta (con, in aggiunta, l'immediato rifiuto del ricorso all'aborto); l'idea che anche due giovanissimi come Enrico e Marcella al concetto di famiglia ci arriveranno molto presto. Senza famiglia (per vedovanza, separazione o altro) non vi sono che esseri sperduti (Mantovani) o malinconici (la sensibile signora aristocratica), bambini sballottati come pacchi postali (Graziella) o rapporti cinici e promiscui (la cerchia del barone-produttore il quale, tanto per meglio precisare, è reduce da quel luogo di nefandezza che risulta il Festival di Cannes). Con l'amore si può scherzare, almeno fino a un certo punto; ma l'amore e i suoi surrogati non possono essere merce di scambio.

S'è detto del documentario, e in questo senso Domenica d'agosto è uno straordinario spaccato della società dell'epoca. Un antropologo, anche approfittando del fatto che buona parte dell'azione vede personaggi in costume balneare, potrebbe ricavarne dati antropometrici interessanti e avere la controprova di quanto il fisico degli italiani si sia modificato negli ultimi quarant'anni. Un sociologo troverebbe pane per i suoi denti, circa i modi di attuazione di riti collettivi, l'esplicitazione di “sogni e bisogni”, la diversificazione dei mezzi di trasporto, la sopravvivenza dell'economia di guerra. Anche un linguista potrebbe cavarne la sua utilità, osservando l'uso alternato del dialetto e di un italiano letterario talora un po' buffo talora ironicamente dissacrato. È un'Italia dove accanto alle spiagge affollate esistono ancora reperti bellici come i campi minati; dove i ristoranti possono ancora inalberare cartelli con la scritta «Si accettano clienti con cibi propri»; dove un pizzardone, che pure ha un ruolo di piccola autorità, non può far uso delle scale padronali per andare a trovare la propria fidanzata e dove costei, servetta diligente e fidata, deve sottostare a inique imposizioni; dove infine tra la “zozzeria” (come essi la definiscono) e i “signori” esistono barriere di filo spinato, vero o metaforico.

Rapporto sugli anni 50

Film più che noto, grazie anche ai frequenti passaggi televisivi, Domenica d'agosto occupa una curiosa posizione nelle cronache del tempo e risulta alquanto defilato (non sistematizzabile si vorrebbe dire) negli studi successivi. Cominciamo da questi ultimi. Fabio Carpi nel suo Cinema italiano del dopoguerra (1958) è forse il primo a tentarne un inquadramento, con la conseguenza che il suo giudizio («Domenica d'agosto ha tutte le qualità e i difetti di un film di debutto, ma conquistava per la sua giovanile schiettezza, per l'entusiasmo con cui il regista aggrediva ambienti veri e personaggi meno veri») ispira ulteriori e ancor più decise sottovalutazioni. Brunetta, per esempio, nella sua Storia del cinema italiano non gli riconosce caratteristiche peculiari e lo inserisce in discorsi sul genere «episodico» o sull'esplorazione di «luoghi sconosciuti». Pressoché ignorato nell'importante volume collettivo Il cinema italiano degli anni '50 (1979, a cura di Giorgio Tinazzi), Domenica d'agosto non conosce sorte migliore in altre pubblicazioni retrospettive, un po' a causa del mutamento di settore del regista (il suo ultimo lungometraggio, La ragazza in vetrina, è del 1960), un po' in conseguenza di un autoisolamento che lo stesso ha rotto solo di recente.

Non molto si trova anche spulciando la critica dell'epoca. Su «Cinema» (n. 43, 30 luglio 1950), Aristarco, che lo fa derivare dalla «maniera Castellani», gli dedica due aggettivi («medio, bozzettistico»). Sul fascicolo precedente della stessa rivista, più articolato è il resoconto di un referendum riservato al film dopo una proiezione organizzata dal Gruppo lombardo giornalisti cinematografici: 1500 presenti, 165 votanti, 81 per cento i favorevoli, solo il 2 per cento i nettamente contrari. Val la pena di citare qualche risposta: «Molto piacevole, semplice, tutti così dovrebbero essere i nostri film e non fastosi e in ambienti di lusso che a noi non interessa»; «Educa in un certo senso la gioventù di oggi ad essere onesta»; «Profondamente umano e, oltre tutto, anche educativo: la semplicità e onestà della povera gente di fronte all'ignoranza e alla amoralità della classe ricca»; «Avrei desiderato che la “stupidità” della cosiddetta classe aristocratica fosse messa in maggior rilievo in contrapposto alla semplicità della classe onesta e lavoratrice». Più deboli le motivazioni dei contrari: «Deploro che i nostri registi trattino, quasi sempre, di miseria e di disonestà. Bella propaganda!»; «Ma per l'estero? Quale il costrutto? Uno dei soliti film in cui l'Italia e gli italiani non ci fanno bella figura».

Da queste pur semplicistiche risposte si direbbe che il film abbia le carte in regola per stare alla pari con i più celebrati capolavori del neorealismo, ma l'equiparazione deriva probabilmente da una forzata lettura o da un'interpretazione ormai acquisita. Domenica d'agosto è chiaramente un'opera di transizione, come dimostra anche una dichiarazione d'intenti del suo regista, solitamente parco nell'intervenire: «Non amo questa società», egli scrive nel marzo del 1953 («Cinema Nuovo», n. 7), «e do per certo, per naturale e già scontato, quasi, l'avvento di un mondo migliore. Ho tanta fiducia in questo, e lo sento talmente vicino, con una evoluzione già così intensa e profonda, da sentire soprattutto ottimismo, e diffonderlo, nei miei film: fiducia nel domani, gioia di vivere, di amare, di lavorare, e forza di lottare per tutto questo: una forza che è nel popolo soltanto. Questo è lo spirito dei miei film, questa è la mia posizione umana, sociale». Ma un altro problema viene messo a fuoco dal soggettista e produttore Amidei: «L'accusa che mi hanno fatto di aver dato la stura con Domenica d'agosto al neorealismo rosa, è un'accusa che io accetto volentieri, perché è vero che l'Italia stava cambiando, e quelli che non se ne sono accorti sono quelli che ancora oggi si sorprendono che i giovani non li capiscono» (intervista a Faldini e Fofi in L'avventurosa storia del cinema italiano).

Eppure v'è qualcosa di ancora diverso: il senso del cinema tout court. Emmer, o chi per lui, con Domenica d'agosto è riuscito a trasmettercelo, a mantenercelo nel tempo, con la sua costruzione insieme spigliata e rigorosa, con la sua rivisitazione di luoghi comuni che evitano la macchietta e quasi sempre anche il bozzetto, con il suo buon senso che non è mai banalità. Potrà esservi qualche errore di regia, come alcuni hanno rilevato, ma v'è anche una precoce maestria nel muovere la macchina da presa, nel frugare fra i corpi esposti sul litorale, nel seguire le allegre corse sulla spiaggia o magari (ed è un pezzo di bravura) nel mostrarci la disperata fuga del rapinatore fallito nel labirinto di recinzioni e cancelli (ancora segnali di costrizione) del mattatoio, con in più il sottofondo del cupo muggito degli animali destinati alla macellazione. Sono prove, sono risultati, sono momenti di felicità creativa che riescono soltanto a degli outsider, ad autori un po' marginali rispetto al panorama ufficiale.

E non è certo un caso che su una spiaggia questa volta ricostruita in studio, anzi appena visibile, soltanto immaginata abbia ambientato uno dei suoi migliori film, anch'esso con caratteristiche da cult movie, un altro regista “insolito”… Parliamo di Casotto (1977) di Sergio Citti, con la sua straordinaria circolarità del luogo, di quel grande capanno in cui si incrocia e si scontra un'umanità eterogenea, e con l'altrettanto straordinaria circolarità del racconto e delle relative riprese. Posti a confronto, i due film rivelano analogie (il rischio superato del bozzetto, la sempre possibile “volgarità”, un certo sovraffollarsi di spunti) e diversità (il mutamento del campione sociale, l'evoluzione di gusti e consumi, una maggior spregiudicatezza nel secondo), ma soprattutto colpiscono per l'anticonformistico attaccamento alla vita, o vitalismo, che manifestano. Come non v'era molto di che ridere nell'anno santo 1950, v'era di che piangere in quel 1977 da ultima contestazione: ma Emmer per un verso e Citti per un altro sono stati capaci di cogliere nel segno, entrambi offrendoci un segnale di speranza, entrambi uscendo dal grigiore della norma.


«Cineforum» n. 181, gennaio/febbraio 1979

Tullio Masoni, Paolo Vecchi/Lo schiaffo al commendatore. La commedia tra passato e presente

Il sorpasso: marginalità e (dis)integrazione

La cauta demistificazione della storia patria, la riscossa post resistenziale simboleggiata dal gesto di coraggio di Magnozzi-Sordi (lo schiaffo al Commendatore alla fine di Una vita difficile), trovano logico sbocco e completamento nella fenomenologia, e insieme nella metafora, di Il sorpasso. Potremmo iniziare dicendo che il film di Risi è non soltanto il risultato più importante di tutta la “commedia di costume”, ma in assoluto uno dei maggiori film italiani di tutti i tempi, uno di quegli ipotetici “film da salvare”, da portare sull'isola deserta del cinéphile. Ma non è una glorificazione (di cui peraltro il film non ha bisogno) il fine di questo lavoro. Saremmo tentati piuttosto, in via preliminare, da alcune annotazioni sulla struttura dell'opera, che crediamo significative anche per determinarne la rilevanza sociologica.

Il sorpasso è infatti, innanzitutto, il resoconto di un viaggio. È questa una costante che attraversa, con significati diversi, letteratura e cinema, dai reisebilder ai tropici di Stevenson, dalle fughe dei sognanti personaggi di Anderson alla “strada” di Kerouac, da Il fiume rosso ai road movies, giù giù fino alle sintesi di Wenders, nelle quali si incontrano e si sovrappongono Goethe e Hawks, Easy Rider e il film noir, l'andersoniana voglia di raccontarsi e la fordiana esaltazione dell'amicizia virile, in una continua reinvenzione in cui cinema e letteratura fungono da strumenti di lettura di se stessi (Sergio Amidei, in un'intervìsta televisiva, ha dichiarato che Dennis Hopper gli ha confidato di essersi ispirato a Il sorpasso per la realizzazione di Easy Rider; questa affermazione, per quanto vada presa con la dovuta cautela, ci pare confermi comunque quanto qui sosteniamo). L'uso di uno dei tòpoi più frequenti, sia da un punto di vista cinematografico che letterario, è da ricollegare a una duplice funzione. La prima riguarda la volontà del regista (e dei suoi collaboratori) di dare uno spaccato il più possibile completo dell'Italia del “boom”, colta nella celebrazione di uno dei suoi riti più tipici, la pigra estate balneare. La seconda trova la sua ragione nella psicologia dei due protagonisti e nell'evoluzione del loro rapporto.

Cominciamo da qui. Per definire il carattere di quello che è il vero “mattatore” del film, il Bruno Cortona di Vittorio Gassman, ci serviremo, almeno fino a un certo punto, di un ottimo saggio di Giovanni Cesareo (La commedia del boom, in Film 1964, Feltrinelli). Con Bruno, afferma Cesareo, pubblico e autori stabiliscono un rapporto che è critico, ma anche di complicità. Questo deriva dall'inusitata complessità che il personaggio ha acquistato rispetto ai suoi più immediati predecessori degli anni '50. Infatti, se la derivazione sordiana è indubitabile («La romanità, l'infantilismo, la buffoneria, il velleitarismo, una fondamentale insicurezza, l'inclinazione ad arrangiarsi, il candido cinismo che lo porta a violare alcuni tabù piccolo borghesi»), ben altro spessore e significato vengono ad assumere il suo disincantato e “profondo” modo di vedere le cose, la sua ambigua posizione di marginale, il suo essere, in ultima analisi, dentro, fuori e contro la logica della società del “boom”. Incapace, per una sorta di spensieratezza adolescenziale che si protrae pervicacemente oltre la soglia dei quaranta, di rispettare le “regole del gioco” pur conoscendole benissimo, Bruno è uno sconfitto sia sul piano sociale che su quello degli affetti familiari (è separato dalla moglie, e la figlia, pur amandolo ed incitandolo a non cambiare «Almeno tu!», cerca un sicuro ancoraggio nel maturo e ricco Bibì, interpretato, ovviamente, da un ormai emblematico Claudio Gora). Ma il suo vitalismo, la sua capacità di farsi sfiorare dalle cose senza rimanerne segnato, gli fanno prendere delle rivincite, effimere ma “vendicative” per sè e per il pubblico che irresistibilmente vi si identifica, sul piano sociale (l'eccellenza che aspetta davanti alla toilette del distributore), sessuale (le “lodi” – l'ormai celeberrimo «Hoholalà!» – e la disponibilità della donna del commendatore), simbolico-sportivo (la partita a ping-pong). Tuttavia anche la sua aggressività non è univocamente orientata, trasformandosi in gratuita cialtroneria laddove si rivolge, non senza viltà, contro chi gli è pari o inferiore nella scala sociale.

Ma la sua lucidità, pur senza arrivare mai alla coscienza, gli fa vedere le cose, lo porta a lacerare quasi pedagogicamente, per il suo giovane compagno di viaggio e per lo spettatore, il velo di tutti quei falsi miti, di cui pure condivide il fascino, che si accavallano nel caotico baraccone dell'Italia miracolata (acutissimo nell'usare il filtro del “senso comune”, Bruno dedica uno dei suoi sberleffi più caustici a L'eclisse e, più in generale, a tutto il “cinema dell'alienazione”, a quei tempi à la page; per contro, Antonioni viene definito “grande regista”, ma per la potenza della sua fuoriserie – anche l'“artigiano” Risi viene così vendicato dal protagonista). Questa funzione strumentale trova logica correlazione nella presenza del personaggio di Roberto: un nevrotico, grigissimo piccolo borghese, emarginato per difetto di quel vitalismo e di quella incosciente sfrontatezza che è l'unico patrimonio di Bruno. Corollario necessario al “viaggio”, anche quello dell'apprendistato virile costituisce uno dei punti fermi di tanto cinema americano, western e non. Ma qui il rapporto pedagogico non si basa sulla trasmissione di una professionalità, bensì su una generica quanto disincantata “introduzione” a una vita che peraltro sembra sfuggire al protagonista quanto più egli si applica ad approfondirne i meccanismi di funzionamento e a renderli palesi, nella loro crudezza, al giovane amico. La complementarietà dei due viaggiatori, quindi è tale soltanto in negativo, e il modello americano viene smentito, assieme all'ideologia di cui si fa veicolo.

Il progressivo passaggio di Roberto dall'imbarazzo alla simpatia, fino alla totale adesione nei confronti dell'occasionale amico-padre costruisce un itinerario necessario alla distruzione di una serie di falsi miti – l'infanzia felice (Occhio Fino!), l'amore “pulito”, la professione e la carriera (si veda, ad esempio, la demistificazione, avviata da Bruno e compiuta autonomamente da Roberto, del “cugino Alfredo”, perfetto esemplare di arrampicatore sociale che usa spregiudicatamente le armi della compromissione clientelare e polìtica – è un democristiano di destra) – con un radicalismo che pochissime volte è dato riscontrare nel cinema italiano. Poco importa poi che il personaggio di Bruno sia realmente “alternativo” – per fortuna, oseremmo dire – che la sua non sia una opposizione cosciente, ma una marginalità insieme sofferta e goduta.

E anzi è proprio l'effimera natura di outcast su cui il sistema proietta irresistibilmente il proprio fascinoso richiamo che preclude, in definitiva, al personaggio una funzione consolatoria, che contraddice, in un pessimismo totale, quelle forzate speranze di palingenesi morale e sociale che il gesto simbolico di Magnozzi-Sordi aveva interpretato. Gli alibi storici non funzionano più, l'Italia del “boom” e del centrosinistra è lì, passa rapidamente sotto gli occhi disincantati e miseramente partecipi di Bruno e, al sole della Versilia, mostra le scottature di un'evoluzione caotica sulla quale sedimentano persistenze arcaiche, in una commistione che deve essere ancora sistemata-razionalizzata, ma che comunque presenta già chiaramente il suo volto sinistro. Certo, il protrarsi indefinito dell'adolescenza di Bruno dovrebbe essere il segno di una mobilità sociale in atto, di una situazione non bloccata, capace di offrire a chi è dotato di iniziativa illimitate possibilità. Ma è altrettanto evidente l'illusorietà di questa promessa. Il lancinante e ingordo “vivere alla giornata” di Bruno si rivela cosi strettamente connesso all'air du temps e insieme legato a un passato di frustrazioni che in esso vorrebbero riscattarsi. L'Aurelia Sport (“Supercompressa”), effimero strumento di affermazione di una virilità, sessuale e sociale, era la macchina di lusso per eccellenza nei film degli anni 50, da La provinciale a Guendalina (la ritroveremo, col significato evidente di citazione, in Primo amore): qui appare come “status symbol” invecchiato e per di più materialmente decrepito (l'ammaccatura), letteralmente “di seconda mano”, feticcio obsoleto per un consumo secondario.

Il suo viaggio, con un carico di emarginazione e fantasia, di conformismo e rabbia, è orientato, vettorialmente e simbolicamente determinabile (da una·Roma sonnolenta e pastasciuttara, la Roma dei “poveri ma belli” e del sottosviluppo, al Nord industrializzato e “progressivo”), ma, dietro le apparenze del divertimento sboccato, è ben presto avvertibile la sua natura di trasporto funebre: la “scuola di vita” diventa “scuola di morte” (il film è punteggiato da presagi di morte, nemmeno tanto nascosti, dalla scena del cimitero, che conclude un inseguimento “gallistico”, a quella del camion di frigoriferi, dove un ennesimo tentativo di “commercio” da parte di Bruno viene frustrato dalla vista di una vittima dell'incidente, a quella dell'omino che viene trascinato fra due carabinieri protestando la propria innocenza, l'approssimazione all'esito finale è gradualmente preparata; tipica del cinema di Risi è d'altronde questa alternanza wilderiana di comico e drammatico). Nella rabbiosa aggressione fenomenologica ad un presente in cui confusamente vede smentite le illusioni della “svolta”, Risi accompagna a un tragico epilogo non solo i suoi personaggi e le situazioni di diversa marginalità che essi rappresentano, ma anche le speranze che una categoria di intellettuali, in un periodo storico breve e convulso, aveva nutrito. L'investimento utopico dello schiaffo al commendatore è stato consumato, ma il potere di Claudio Gora non è stato minimamente scalfito dall'improvviso tuffo in piscina. All'italiano medio non resta che continuare, con cosciente impotenza, a sguazzare nel brago, riscattato in maniera effimera dagli sberleffi funebri di Bruno-Gassman.


«Cineforum» n. 354, maggio 1996

Federico Chiacchiari/Filmese. Ferie d'agosto 

Forse ha ragione Silvio Orlando quando sostiene che Ferie d'agosto è la prima commedia di destra girata da un regista di sinistra… oppure no, e la dicotomia in cui sembra dibattersi il fìlm è sul serio solo apparente, solo un involucro, il contenitore mediale attuale all'interno del quale costruire una storia. Perché il pregio migliore di questa bella commedia di Paolo Virzì è proprio il suo essere “storia”. Storia in quanto sceneggiatura, con dei personaggi ben costruiti, dei dialoghi finalmente non improvvisati o di cui vergognarsi, dei rapporti tra i personaggi incisivi e curiosi, piccanti e alle volte crudeli, sempre comunque “reali”. Ma Ferie d'agosto è storia anche per il contesto che cerca di rappresentare, l'Italia degli anni 90, o meglio alcuni italiani di quest'epoca. Tullio Kezich è stato tra i pochi a sottolineare l'affinità che esiste tra Virzì e il cinema “minore”, ma bello e straordinario di un Luciano Emmer. Il suo Domenica d'agosto è un piccolo capolavoro del “minimalismo realista” degli anni 40-50, con quelle storie a intreccio così “vere”, così semplici (e invece cosi dannatamente e intelligentemente costruite nella sceneggiatura “forte” di Amidei e nel doppiaggio che annullava ogni “deviazione” naturalista). Virzì invece sceglie la più “rischiosa” presa diretta, e si getta a capofitto all'interno della storia del cinema italiano, dove la commedia la fa da padrona e dove spesso la commedia stessa è il cinema italiano (genere cui tutto si riduce, anche quando si cerca di sfuggirne).

Ma quello che è assolutamente da evitare è cercare una morale ben delineata nella storia, e soprattutto di impelagarsi nel discorso destra/sinistra. Gli italiani che Virzì cerca di rappresentare non sono gli italiani, ma solo uno sparito gruppetto, con mentalità diverse e basi, tradizioni culturali diverse. Da qui a risalire alla critica dell'Italia in epoca di maggioritario è probabilmente eccessivo, e allo stesso tempo penalizzante per il film. Che è invece un bell'affresco corale, finalmente interpretato bene da un bel gruppo di attori, cui una sceneggiatura discreta permette di esprimersi al meglio.

E allora vogliamo cercare di rovesciare l'apparenza del film; perciò i personaggi principali non sono né il Sandro interpretato da Silvio Orlando, e neppure il Ruggero di Fantastichini (che ricorda molto alcuni personaggi di Gassman degli anni 60), o la Marisa di Sabrina Ferilli (benché siano tre belle maschere della commedia all'italiana anni 90). Centro reale della storia sono i personaggi perdenti, quelli messi ai margini, sempre in minoranza, come direbbe qualcuno “dalla parte del torto”. Ed ecco che riconosciamo il personaggio “minore” Marcello (Natoli), e quello di Francesca (la Ponziani). Due personaggi finalmente “veri” di un'Italia malata, ma che ha dentro di sé una forza oscura, e che soprattutto è migliore di come appare. Marcello “costretto” dai rapporti familiari a una vita di commerciante che non sente sua (e infatti da quell'ingenuo che è rimane pieno di debiti), e Francesca, anima in pena, arrivata nell'isola per un incontro casuale, che ha conosciuto giovanissima Sandro il cui cinismo intellettuale le ha insegnato moltissimo, soprattutto come “non essere”.

Perché quello che ci piace di Ferie d'agosto (che pure ha dei limiti anche evidenti di regia, di raccordi di montaggio non sempre perfetti, di una presa diretta che spesso rende i dialoghi incomprensibili, eccetera, ma sono tutti difetti relativi perché una commedia è tale soprattutto quando sceneggiatura ed attori “flirtano” alla grande e qui Virzì sa far bene il suo lavoro) è questa critica manifesta ad entrambi i modi mostrati di “essere italiani”, sia l'intellettualità progressista (che scrive sull'«Unità», ed è talmente chiusa nel proprio mondo da non riuscire assolutamente a capire gli altri e neppure a riconoscere le proprie evidenti cadute di stile), sia il “becerismo” dei “bottegai”, la cui ignoranza palese permette a Virzì però un atteggiamento meno cattivo e più ironico nei loro confronti. Chi ne esce fuori sono proprio questi due bei personaggi, uno tenero, timido e con lo sguardo giusto, diretto verso il cielo, oltre le quattro case che ci circondano (e Antonella Ponziani già in Verso Sud di Pozzessere è un nome da non dimenticare, potrebbe essere davvero uno dei nostri nomi "nuovi" di un cinema "migliore"), l'altro giuggiolone, amicone simpatico e casinista, sempre pronto a cantare in compagnia, semplice e ingenuo ma di animo sensibile e “sereno” (e Piero Natoli, fuori dalle velleità registiche si segnala qui come uno dei migliori caratteristi del cinema nostrano). I due personaggi fuori dal gruppo si incrociano, si sfiorano, si parlano e soprattutto ascoltano, perciò si capiscono. Gli altri sono tutti presi dal proprio Io, e, come i medici dell'ultimo episodio di Caro diario di Moretti, sanno ben parlare, ma non riescono assolutamente ad ascoltare.