Powell & Pressburger, i due Arcieri danzanti

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Alla Berlinale di quest'anno è stato proiettato il documentario Made in England: The Films of Powell & Pressburger di David Hinton (la cui distribuzione in streaming, in Italia, sarà curata da Mubi). Il film è presentato da Martin Scorsese, appassionato fan del cinema di Michael Powell ed Emeric Pressburger che così descrive i due autori: «Grandiosi, poetici, saggi, avventurosi, ostinati, estasiati dalla bellezza, profondamente romantici e completamente privi di compromessi». Quintessenzialmente britannico e al tempo stesso rigogliosamente universale, quello di P&P è un cinema al quale si torna sempre più che volentieri, una vera festa per gli occhi, la mente e il cuore. Di Scarpette rosse, quello che forse è il più popolare tra i film degli Arcieri (Archers fu il nome della loro casa di produzione), ne scrisse Emanuela Martini in un Flashback uscito su «Cineforum» n. 275, giugno 1988, che qui riproponiamo.

 

 

«Cineforum» n. 275, giugno 1988

Flashback

Scarpette rosse

di Michael Powell ed Emeric Pressburger

 

Emanuela Martini

 

Tra cinema "alto" e cinema popolare - Il nucleo fondamentale del lavoro di Powell e Pressburger si sviluppa dal 1939 (l'anno della Spia in nero, prima, casuale collaborazione dei due) al 1955 (l'anno di Oh Rosalinda!!, l'ultima delle loro fantasticherie musicali, cui faranno seguito, in coppia, soltanto un paio di film minori e, per Powell, il “testamentario” Peeping Tom). Basta un'occhiata ai titoli dei film inglesi che, negli stessi quindici anni, sono passati alla storia per ribadire la stravaganza del loro lavoro: film della scuola documentaria, come Target for Tonight (1941) di Watt, Fires Were Started (1943) e A Diary forTimothy (1945) di Jennings; film di guerra che spesso alla scuola documentaria si ispirano, soprattutto nell'utilizzo di filmati di attualità o di repertorio, come The Lion Has Wings (1939) di Hurst, Brunel e dello stesso Powell, In Which We Serve (1942) di Lean e Coward, This Happy Breed (1944) di Coward, The Way Ahead (1944) di Reed, Convoy (1940) di Tennyson, Next of Kin (1942) di Dickinson, The Big Blockade (1942) di Frend, The Bells Go Down (1943) di Dearden, San Demetrio London (1943) di Frend; film di impianto sociale, come Stars Look Down (1939) di Reed, Millions Like Us (1943) e Waterloo Road (1944) di Launder e Gilliat, The Blue Lamp (1950) e I Believe in You (1952) di Dearden, Dance Hall (1950) di Crichton. Poi, naturalmente, ci sono Breve incontro (1946) di Lean e i tre film più famosi di Carol Reed, Il fuggiasco (1947), Idolo infranto (1948) e Il terzo uomo (1949). Se di Breve incontro non si è sottolineato abbastanza il romanticismo malato, per evidenziarne invece i tratti psicologici e ambientali, ai tre film di Reed è stata resa la profonda ingiustizia di una lettura comunque affrettata, di taglio prevalentemente sociologico, che ha finito con l'attribuire la resistenza “mitica” del terzo all'intervento di Orson Welles. Non è un caso che la coerenza ossessiva dei tre film sia stata minimizzata a favore di un'accentuazione realistica (minimizzandone in questa maniera anche i tratti autoriali); rientra nel gusto critico dominante in quell'epoca e nelle successive tendenze storiografiche. La visionarietà barocca è consentita nei film in costume, come i due adattamenti da Dickens di Lean (Grandi speranze del 1946 e Oliver Twist del 1947) o, meglio ancora, le riduzioni shakespeariane di Laurence Olivier (Enrico V de 1944 e Amleto del 1948). Quanto ai manifesti tormentoni sessuali, essi sono abbandonati nel limbo del cinema popolare: i melodrammi femminili degli anni 40, come The Man in Grey (1943) e The Wicked Lady (1945) di George Arliss, Madonna of the Seven Moons (1944) di Arthur Crabtree, The Seventh Veil (1945) di Compton Bennett, Bedelia (1946) di Lance Comfort, qualche ghost story, come A Place o f One 's Own (1945) di Bernard Knowles e Dead of Night (1945) di Cavalcanti, Crichton, Dearden e Hamer, i drammoni di serie B centrati, a metà degli anni 50, sulla straripante presenza di Diana Dors (tra i quali, però, c'è anche un adattamento della storia di Ruth Ellis, l'ultima donna impiccata in Gran Bretagna, molto meno accattivante e leccato di Ballando con uno sconosciuto), fino ad arrivare all'esplosione orrifica ed esplicitamente sensuale della Hammer. Siamo comunque in un territorio cinematografico dal quale la critica si è tenuta ben distante fino a non molto tempo fa.

Powell e Pressburger sono gli unici ad essere riusciti, per circa quindici anni, a tenersi in bilico tra il cinema “alto” e quello popolare. In questa maniera, hanno anche dato vita all'unico coerente corpus autoriale del cinema inglese della loro epoca (e probabilmente non solo di quella). Fatta eccezione per la scuola del documentarismo, gli autori inglesi sembrano infatti esaurirsi o compromettersi nel giro di una manciata di film. Basta pensare a Reed, a Robert Hamer, a Olivier, a Mackendrick, allo stesso Lean (nonostante la sua carriera, fino agli anni 60, sia più che rispettabile). Basta pensare al guardingo understatement in cui si destreggia Anthony Asquith, uno dei cineasti inglesi più interessanti e misconosciuti, o al ritiro prematuro dalla regia di Thorold Dickinson, più volte paragonato a Hitchcock. Le radici del fenomeno non sono esclusivamente strutturali, anche se la causa prima dell'impoverimento va ricercata, almeno dall'avvento del sonoro, nella cronica servitù del cinema inglese a quello americano.

Ma, al di là della costante emigrazione dei talenti verso Hollywood, al di là della monopolizzazione degli schermi inglesi da parte dei prodotti statunitensi e dei pomposi lavori su commissione (pagati dagli americani anche se, ufficialmente, di produzione inglese) nei quali gli autori britannici (Lean in testa) hanno spesso sperperato il loro talento, esistono cause più sottili, di natura culturale, che hanno storicamente bloccato l'espressività più propriamente autoriale. Una sorta di impaccio all'approfondimento e alla metaforizzazione dei processi emotivi sembra trasmettersi dai personaggi agli autori. Questo decoro compassato si rompe solo, occasionalmente, di fronte all'emergenza di pressanti fattori di coagulo sociale e ideologico (da cui il documentarismo, il realismo dei film di guerra, del free cinema e di molta produzione filmica televisiva degli ultimi vent'anni), e, tradizionalmente, si redime nell'autoironia feroce della commedia, l'unico genere cinematografico cui tutto è consentito, senza che per questo ne venga necessariamente messa in dubbio la qualità. Fuori di satira, l'abbattimento della barriera del self control viene spesso considerato un cedimento del gusto. E, tra tanta compressione, rischia davvero di trasformarsi in un'esasperata e autocompiaciuta provocazione ai limiti del buon gusto (vedi Ken Russell).

Powell e Pressburger hanno saputo superare questa barriera senza cadere nel cattivo gusto (al di là della voluta rielaborazione del romanticismo kitsch dei Racconti di Hoffmann) e restando contemporaneamente agganciati al cinema di serie A, quello di alto costo, non liquidabile come produzione di genere per i palati popolari. Aiutati in questo da una stagione insolitamente felice del cinema inglese (gli anni 40, durante i quali le sovvenzioni governative e gli estri stravaganti di produttori come Korda e Balcon consentirono il debutto e la maturazione del più ricco nucleo di cineasti britannici) e dal sostegno del pubblico, hanno materializzato l'inconscio britannico in chiave di favola spettacolare.

Un melodramma travestito da favola - Fuori da Hollywood, la coniugazione tra autorialità e spettacolarità totali è impresa ardua e, quanto meno, altalenante. Nell'opera di Powell e Pressburger, Scarpette rosse rappresenta, insieme a Scala al paradiso, il momento più perfezionato di questa coniugazione: racconta un universo ossessivo e contorto travestito da favola. In questo senso, ha uno scarto in più rispetto a Scala al paradiso (che pure è un film più affascinante, più inventivo, più bello): mentre quello trionfa nel lieto fine, Scarpette rosse, con l'esasperato suicidio della protagonista, lascia drammaticamente irrisolto il proprio dilemma. Nessuna catarsi: Victoria Page vola giù dalla terrazza verso il treno perché non ha risposte. La sua caduta a occhi sbarrati anticipa la corsa di Mark Lewis contro la lama e lo specchio della propria morte. Anche se il finale tragico ha la stessa valenza catartica di quello lieto (soprattutto nel melodramma cinematografico e soprattutto in quello hollywoodiano), in questo caso qualcosa non funziona rispetto ai meccanismi tradizionali del genere. La tragedia non rappresenta né un sacrificio volontario né l'espiazione di una colpa. Non “purifica” il racconto, compiacendo la morale e il senso comune (come generalmente accade nel melodramma), ma se mai lo intorbida ancora di più, radicalizzandone all'estremo il dilemma.

Un dilemma che non è, come appare in superficie, tra la vita affettiva e la dedizione all'arte, ma tra una passione assoluta, totalizzante e, in quanto tale, “maledetta” e un equilibrio più tranquillo, piccolo-borghese (pur nella sua composta attitudine bohemienne). Da che parte stiano gli autori è assolutamente palpabile, intenti come sono a contraddire sul piano delle immagini quello che affermano a parole, a contrapporre all'affezionato buon senso di Marius Goring le suggestioni sataniche di Anton Walbrook. Lermontov è capace di risvegliare a distanza una donna dal sonno con il rimpianto del balletto (in una scena notturna ricchissima di suggestioni “vampiriche”), di trasformare in arte i primi balbettii dilettanteschi, di mandare in scena un balletto senza la prima ballerina. Segnato dalla dannazione del mago, sfuma in silenzio tutte le passioni più umane. Così, toccano proprio a Lermontov le scene madri di più intensa espressività: la delusione per l'appuntamento mancato con Victoria, il gelo distruttivo della gelosia e, alla fine, il pianto silenzioso per la morte della prima donna. Lermontov si assume tutto il dramma, si impadronisce della scena, trasformando un mélo narrativamente piuttosto tradizionale in un'opera nera, di contorte e inespresse inquietudini. L'ambiguità ricchissima del personaggio di Lermontov, l'equilibrio tra il suo trattenuto risvolto umano e la sua esplosività demoniaca rimettono in gioco l'apparente linearità del racconto, offuscandone la morale. In questo senso, Scarpette rosse rispecchia sotterraneamente la struttura delle fiabe (soprattutto di quelle di Andersen), non tanto perché cela una simbologia psicoanalitica dietro prototipi caratteriali e situazioni convenzionali (in questo caso, la convenzione del melodramma), ma soprattutto perché imposta lungo il corso del racconto la contraddizione della morale conclusiva.

Le fiabe di Andersen sono percorse di una vena di tristezza disperata, di senso della diversità che le pongono, rispetto a quelle della maggior parte degli altri favolisti tradizionali, su un piano più marcatamente romantico. Sono più vicine alle favole di Oscar Wilde (veri e propri drammi della passione amorosa) che non agli incubi sardonici dei fratelli Grimm. Per quanto alla fine ferocemente morali, sono animate dal rimpianto per le rinunce che la morale impone. In questo senso, con la brutta fine che fanno fare ai loro personaggi, sono molto vicine alla struttura narrativa del melodramma. Scarpette rosse, in particolare, sottopone la propria protagonista a una punizione raccapricciante, costringendola a strisciare per il mondo sui moncherini fino a quando non ha scontato il suo peccato di vanità. Ciò non toglie che, sotto il moralismo punitivo, aleggi nella favola una sorta di affetto romantico per la bambina innamorata delle scarpe rosse e del ballo, vera e propria eroina maledetta, né più né meno dei protagonisti che vendono al diavolo l'anima, l'immagine riflessa o l'ombra.

Il film, senza prendere null'altro (all'apparenza) che lo spunto per il balletto, si impadronisce in realtà di queste suggestioni, rielaborandole in termini narrativi più melodrammatici e ridistribuendole tra Victoria e Lermontov. Dalla sovrapposizione emerge l'abolizione completa della morale e perciò, forse, anche la lettura più puntuale degli incubi e dei tormenti di Andersen. Oltre che, naturalmente, uno specchio dell'immaginario gotico-romantico talmente efficace da aver tramandato alle storie del cinema un melodramma passionale come film-favola.