Il 19 giugno di cinquant'anni fa veniva presentato in anteprima a New York L'esorcista di William Friedkin. Film che segnò l'inizio di un nuovo modo di fare cinema horror, a noi piace ricordarlo piuttosto come fonte di ispirazione di una delle più riuscite parodie della storia del cinema italiano, tanto più considerando che il suo autore, Ciccio Ingrassia, di recente avrebbe compiuto cent'anni, ragion per cui ci è parso un dovere e un piacere omaggiarlo così. L'Esorciccio, uscito nel 1975, è una rilettura comica che rivela una certa intelligenza (par-odiare, par-amare, scriveva Ermanno Comuzio sulle pagine di «Cineforum») e, senza prendersi mai sul serio, raggiunge e a tratti perfino surclassa (azzardiamo ad affermare) il modello friedkiniano. Giacomo Manzoli ne ha parlato sul n. 401, gennaio/febbraio 2000, di «Cineforum», all'interno di uno speciale sulla riedizione dell'Esorcista originale.
Così tanti pensieri evoca la visione in sala (in “vere” sale) dell’Esorcista di Friedkin a quasi trent’anni di distanza, che è difficile disciplinarli e lasciarli uscire in una forma, non vorremmo dire organica, ma almeno consequenziale. Uno di questi pensieri discende dalla particolare ricezione che il film ha avuto. A molti è capitato di vederlo nei primi giorni di programmazione, in sale affollate, magari nelle proiezioni del fine settimana. E in quelle condizioni, buona parte del pubblico (soprattutto quello “giovane”), come Franti infame, rideva. Le ragioni possono essere tante, dalla familiarità con un oggetto desueto (ci convince poco) all’esorcismo collettivo (ci convince di più) dell’Esorcista, ovvero di uno dei più perturbanti film che la storia del cinema ricordi. Avremmo voluto vedere se sarebbero stati capaci di ridere durante la proiezione notturna del film, in una sala vuota di una nebbiosa periferia…
Qualcuno avrebbe riso ugualmente, almeno in certi momenti, perché il film di Friedkin era già stato esorcizzato a morte, anzi “esorcicciato”. Ed è su questo pensiero che vorremmo soffermarci, sostenuti dall’impeccabile programmazione di Rete4 che, a pochissimi giorni dalla riedizione dell’assatanata Linda Blair, ha regalato al suo pubblico un passaggio dell’Esorciccio nella collocazione, mai così adeguata, dei «Bellissimi». Per gli amanti del film di Ingrassia, comunque, non è stata tanto un’occasione per rileggere l’originale alla luce della parodia, quanto di rimirare la perfezione della stessa parodia alla luce dello splendido originale.
Nostalgia, ovvero dolore del ritorno e imperfezione dei libri. Abbiamo consultato di nuovo un bellissimo testo spagnolo, dedicato ai Films que nunca veremos e non abbiamo trovato, fra Fellini, Kurosawa, Ejzenstein e tanti altri, i titoli di due pellicole che avremmo sinceramente voluto vedere. Due presumibili capolavori partoriti dalla mente di Ciccio Ingrassia che avrebbero potuto essere e non sono stati. Parliamo del seguito dell’Esorciccio, vale a dire L’Esorciccio contro King Kong e di una parodia di Sandokan interpretata da Lino Banfi (l’altro grande progetto rimasto incompiuto, 2002, Odissea nell’ospizio ci è sempre parso troppo “d’intenzione”). Limitandosi a parlare dell’esistente e vincolati da ragioni di spazio, la nostra intenzione è qui semplicemente ricordare ciò che la riedizione del film di Friedkin ha dimostrato e riproposto al centro dell’attenzione. L’Esorciccio, oltre che bello e divertente, è un film importante.
Lo è per Ciccio Ingrassia che questo film ha partorito e che per questo film ha sofferto. Quello fra il 1972 e il 1977 è un periodo difficile per una delle coppie principi della nostra comicità, ed è anche – non a caso? – il periodo in cui ci regalano almeno tre capolavori: quello di cui ci occupiamo, Ultimo tango a Zagarol, singolarmente, e il Farfallon di Mario Pazzaglia, in coppia. In questi cinque anni i due litigano e si riappacificano almeno tre volte. Reduci da una serie di consacrazioni d’autore (Pasolini, Fellini, Petri, Comencini e altri) i due sono in piena crisi di identità. Come il Johnny Depp della Nona porta stanno prendendo coscienza della propria grandezza. Ciccio cade nel baratro di un grave esaurimento nervoso e Franco prosegue il lavoro senza di lui. Nasce Ultimo Tango, del quale Valerio Caprara ebbe a scrivere, nei primi anni 80, che «di fronte ai soliloqui sinistresi del vanesio innamorato della rivolución, la coerenza snaturata e cocciuta del Superguitto appariva in una luce abbagliante di misteriosa potenza. Il film è esilarante, ma anche astuto sino alla saggezza assoluta: raggiunge – per cammini contorti – il Sublime, come certi santi grulli. Ultimo tango a Zagarol è la più bella epigrafe posta sul sarcofago del cinema italiano».
Ciccio ci resta male, ma i due tornano insieme dopo che Franco è andato da Mike Bongiorno a dichiarargli eterno amore. Resta in lui un’insoddisfazione profonda, come una smania di andare oltre. Nel 1974, infatti, si mette per la prima volta dietro la macchina da presa per dirigere un Amleto siciliano, Paolo il freddo; poi fonda una propria casa di produzione e realizza, fra le altre cose, proprio L’Esorciccio (protagonista quel Lino Banfi con cui, poco dopo, Franco Franchi si recherà in tournée negli Usa, provocando l’ultimo grande litigio). L’Esorciccio incassa bene, non potrebbe essere altrimenti, ma quando sta per essere esportato in Germania si verifica un pasticciaccio (sparizione delle copie, confusione sui diritti) che contribuisce ad affossare la Ingra Cinematografica. Dunque, Ciccio Ingrassia si lancia in questa avventura in un periodo di travaglio interiore, mentre lotta per uscire da una grave crisi. Sa di valere più di quanto ha dimostrato fino a questo momento. Rischia dei capitali, la reputazione e in più ha qualcosa da dimostrare a se stesso: «La nuova avventura consentiva di esprimermi in piena autonomia sottraendomi ad una eventuale condizione di soggezione psicologica nei confronti del mio compagno», dichiara «e di verificare la reale considerazione del pubblico nei miei confronti». Deve far capire agli spettatori e a Franchi ciò di cui effettivamente è capace, e per questo non esita a spendere molto più di quanto normalmente costava un’istant spoof di Franco e Ciccio. In termini di denaro e di coinvolgimento personale (per diversificare gli ambienti mette a disposizione la propria casa) ma soprattutto in termini di idee.
Se il limite dei film della coppia siciliana è in genere nella parsimonia con cui regalano al loro pubblico buone idee comiche e nella conseguente ripetitività, L’Esorciccio è sicuramente immune da questo handicap. Ingrassia getta in un solo colpo il patrimonio di esperienze e di trovate accumulato in tutta una vita. Il film è il ribaltamento parodico di The Exorcist, ma certamente molto più di questo. Ci sono un’infinità di giochi metalinguistici, a partire dalle didascalie iniziali: arriva un operaio arabo che parla nella sua lingua e compaiono sottotitoli in arabo. Il capo degli scavi risponde «Dove?» e compare la scritta «Dove?». Roba da far andare in corto circuito qualsiasi amante delle cosiddette transcodifiche. Poi c’è un piccolo compendio di storia del cinema: quando Lino Banfi si alza di notte e trova il diavolo dentro il frigorifero, in bagno e dietro qualsiasi porta, pare di essersi infilati in una casa infestata di Méliès. Poi vengono presi di mira l’horror, il musical (ancora Banfi che, indemoniato, regala una riuscitissima imitazione di Elvis), la commedia erotica (il bambino satiro, flashforward di Piso Pisello) e il film politico (il missino Turi Randazzo e una pletora di cardinali: «La parodia è un elemento elastico che consente riferimenti sociali e politici», chiosa Franco Franchi in un’intervista…). Fra gli altri, segnaliamo i cartelli godardiani («Rapina in corso», si legge a un certo punto sulla strada) e momenti di surrealtà di stampo buñueliano: Didi Perego che, travestita da francescano, va a tagliarsi la barba e se la vede ricrescere un istante dopo pare un’appendice ciociara a Simón del deserto. Se uno avesse voglia di scorrere una per una le categorie principali del comico cinematografico proposte da Cremonini nel suo splendido libro Playtime. Viaggio non oganizzato nel cinema comico (Lindau, Torino 2000), le troverebbe in azione una dopo l’altra. Nonostante questa ricchezza divagatoria, il film recupera costantemente l’oggetto dal quale prende le mosse. E qui torniamo al tema iniziale. Come si fa a vedere oggi il diavolo che si spaccia per la madre di Damien senza pensare a Satanetto che, di fronte all’orrendo Bacaro, si lascia sfuggire «Mamma, quanto ti sei fatta bella»?. Come si fa a immedesimarsi nell’esorcismo senza pensare a Ingrassia che munito di corno scaramantico scaccia il demone con la formula «Aglio, olio e peperoncino…».
Da un lato, perciò, abbiamo un film che è manifestazione caotica e abbondante di un genio minore in stato di grazia, bravissimo anche a interpretare con impassibilità esistenzialista il proprio ruolo fino alla blasfema Eucarestia del finale (l’Esorciccio inghiotte l’amuleto infestato e si dissolve in diabolica àcusma). Dall’altro, un film che costringe a interrogarsi su un’annosa questione: è giusto applaudire a una parodia che quantomeno eguaglia per inventiva e originalità il modello? Oppure è solo la conseguenza di un pregiudizio platonico che ci porta automaticamente a considerare la parodia (e il remake o il sequel) come versione comunque degradata di un’Idea. Miracolo? Strani effetti retroattivi della intertestualità? Pieno diritto dell’imitatore di essere più vero del vero?
Resta il fatto che il film funziona benissimo e che, esattamente come Ultimo tango a Zagarol, risplende di una misteriosa potenza, toccando talvolta il Sublime. Come mai? La risposta sta probabilmente a metà strada tra due diverse possibilità. Da un lato, L’Esorciccio è un film d’autore, di un autore stimolato a dare il massimo e con una sensibilità affinata in una carriera di quasi centocinquanta film: lo dimostra anche il fatto che Riposseduta, pur con tutte le sue buone intenzioni e qualche ottima battuta, nella sua meccanicità non raggiunge neppure lontanamente la corrosività iconoclasta di questo piccolo grande film.
D’altra parte, però, l’efficacia del film di Franco Franchi era dovuta anche al tono decadente dell’originale, alla sua consapevolezza di Ultimo Capolavoro di un cinema agonizzante (condizione che costringe a muoversi sul filo del ridicolo). Allo stesso modo, la perfezione dell’Esorciccio e la sua capacità di schiacciare il modello si deve forse anche al tono di “fine ciclo” che ammanta di mestizia l’intero film di Friedkin. Non che l’horror finisca con L’esorcista, come il cinema d’autore italiano non finisce con il tango di Bertolucci. Tuttavia entrambi, a modo loro, sono film talmente calati nel proprio tempo (crisi della coppia e messa in scena di contestazioni studentesche sono il formidabile corollario del demone friedkiniano…) da essere al contempo datati e universali. Non a caso entrambi entrano nel ristrettissimo novero di film che hanno disturbato per la brutale trasparenza i contemporanei e non a caso rientrano nel ristrettissimo numero di film che hanno avuto una seconda uscita in sala parecchi anni dopo quella ufficiale. Dopo il Tango ci sono mille epigoni fiacchi e poi Alvaro Vitali. Dopo L’Esorcista vengono parecchie imitazioni, e quindi Sam Raimi che la butta in ridere. Franchi e Ingrassia, grandi parodisti e dunque grandi critici, sembra avessero previsto proprio tutto.