In occasione del centenario della nascita (23 marzo) del grande Ugo Tognazzi, lo celebriamo ricordando una delle sue migliori interpretazioni (premiata al Festival di Cannes), come protagonista di "La tragedia di un uomo ridicolo" di Bernardo Bertolucci. Dagli archivi abbiamo ripescato l'approfondimento che Adriano Piccardi aveva dedicato al film su «Cineforum» n. 209, novembre 1981.
Dopo aver realizzato due film “internazionali”, dopo aver visto fallire il tentativo di dirigere un musical in Brasile, dopo aver ricevuto in America proposte di soggetti che non lo interessavano minimamente, Bertolucci sente il bisogno di tornare a lavorare in Italia, in Pianura Padana, in quel di Parma, nelle zone che costituiscono da sempre per lui terreno di ricordi e d'ispirazione, nonché riserva di paesaggi e di tipi umani. Il soggetto che lui stesso elabora ha le sue radici in un fatto reale: si limita semplicemente a cambiare nomi, luoghi geografici, posizione sociale dei protagonisti. Tognazzi, a cui sottopone l'idea, si appassiona al personaggio, e questa identificazione conduce il cineasta, secondo le sue stesse ammissioni, ad affrontare il film come se si trattasse di un'esplorazione della persona-Tognazzi nascosta sotto l'attore.
Si tratta della storia di un rapimento, i cui risvolti vengono fatti supporre radicati in quel fenomeno oscuro, e sostanzialmente rimosso dalla maggior parte degli italiani (con il valido aiuto del frastuono dei media), che è il terrorismo. Ma non vuole essere un film sul terrorismo, quanto piuttosto «sulla vertigine che coglie due generazioni quando si trovano una di fronte all'altra» (Bernardo Bertolucci, in «Positif» n. 248, novembre 1981). E il confronto si apre subito, infatti, con le immagini di un dopo-festa, tavoli ingombri di bicchieri e bottiglie vuote e avanzi di cibo, il sonno pesante e affannoso di un corpo che ha troppo ingurgitato, la penombra del pomeriggio nella sala riunioni del caseificio Spaggiari. È il compleanno del padrone, Primo Spaggiari, che, quando si ridesta dal suo sonno devastato, apre la lettera d'auguri e il regalo che gli fa il figlio, Giovanni: nonostante lo consideri un industrialotto cafone per il fatto di aver voluto comprarsi una “barca”, ha deciso di donargli un berretto da lupo di mare e un binocolo. Ed è con questo binocolo, segno ambiguo d'affetto e d'irrisione, che Primo vede dal tetto della sua azienda la sequenza del rapimento di Giovanni, la Mini che cerca di fuggire all'auto scura che la insegue («Gioca alle corse»), e poi si ribalta nella scarpata, nel campo di granoturco, Giovanni che striscia fuori dalla carcassa e tenta di fuggire, ma viene raggiunto, tramortito, portato via. A partire da questo evento traumatico, osservato ancora tra i fumi dell'alcool e del cibo, per Primo ha inizio un'avventura che lo metterà duramente alla prova, ne scuoterà la fiducia nel prossimo e, al momento della sua conclusione, gli annichilirà ogni residua possibilità di autonomia e di iniziativa personale, inducendolo a una fuga non meno evidente anche se mascherata con la sollecitudine ad andare a prendere lo champagne per festeggiare l'insperato “lieto fine”.
Dopo averci raccontato in La luna la ricerca del padre da parte del figlio, ora Bertolucci capovolge la situazione: tutto quanto Primo affronta per riavere Giovanni con sé è infatti solo apparentemente il tentativo di riavere in famiglia un componente sequestrato; finisce piuttosto per rivelarsi come il desiderio, da parte del genitore più anziano, di riavvicinarsi e di comprendere una generazione che gli fa sempre più paura nella sua lontananza, e che il rapimento ha solo reso concreta; una generazione, per lui, di potenziali delinquenti, che col suo silenzio non si sa se esprima una richiesta d'aiuto o stia semplicemente per “spararti addosso”.
Ma i tentativi che fa non lo portano a risultati soddisfacenti: sempre, nel momento in cui crede di essere riuscito a carpire il segreto, a essere sceso a patti con questa generazione ombrosa e sfuggente, inclassificabile, rappresentata dagli amici del figlio, che poi egli identifica direttamente con lui, Primo vede fallire ogni certezza, ridicolizzarsi ogni piano, capovolgersi ogni previsione. Per lui, abituato fin da ragazzo a decidere della propria vita e a rischiare anche, ma con la possibilità di contabilizzare premesse e conseguenze delle proprie azioni, il sentirsi in balìa di questa improvvisa voragine è anche la scoperta della frustrazione e dell'impotenza. Ma non al punto da esserne schiacciato completamente. Se è vero che la moglie francese, Barbara, lo ha sposato perché conquistata dalla sua volontà di gran lavoratore (lei, studentessa di restauro, proveniente da qualche famiglia dell'alta borghesia francese, dove il lavoro non era evidentemente tenuto in gran conto), Primo dimostra che proprio da questa sua caratteristica di uomo “venuto su dalla gavetta” deriva, insieme alla necessaria grossolanità, una paradossale nobiltà e incredibile rigorismo utopico, che gli permettono di affrontare anche la notizia che gli viene data, circa la morte di Giovanni, ribaltando la disperazione in un attivismo alacre e fantasioso che gli permetta con un colpo di mano (nel suo passato c'è anche l'esperienza della lotta partigiana) di tramutare il miliardo del riscatto, prestatogli dagli usurai della sua città, in un finanziamento “nero” che salvi il caseificio dal fallimento.
Ma questa nobiltà, questo slancio idealistico, a suo modo “disinteressato” e assolutamente determinato pare appesantire, man mano che il film procede, la figura di Primo Spaggiari: come se la sua utopia si dimostrasse al contempo qualcosa di losco, di lordo, qualcosa di fronte a cui gli altri, e soprattutto Barbara, finiscono col conquistare, paradossalmente, una leggerezza e una trasparenza quasi inumane, di fronte alle quali Primo non può uscirne che sconfitto. Barbara, soprattutto: che di fronte all'attività unidimensionale di Primo, assorbito ormai dalla realizzazione del proprio piano, sa invece trasformarsi in un crescendo finale, da fantasma aggirantesi tra i porcili dell'azienda Spaggiari, a inopinato Humphrey Bogart con cappello calato sugli occhi e in pugno una pistola che in realtà non sa assolutamente controllare; o ancora sa assumere l'aspetto cristallino e inavvicinabile della “fidanzata delle neve” sulla torre, in attesa, instancabile, incrollabile. E infine sa essere la fata che riconduce dal regno dei morti il figlio al padre.
E su questo piano il film è in effetti un po' il confronto anche tra due classi, che, attirate reciprocamente proprio da quelle caratteristiche che le fanno culturalmente diverse, si ritrovano, in seguito allo choc che inaspettatamente le ha colte, con la propria incapacità di comunicare, la sfiducia reciproca, la rinnovata possibilità di mentirsi o di disprezzarsi o di compatirsi a vicenda.
Ma anche da questa vicenda interpersonale e di rapporto tra due classi sociali lontane, così come da quella più strettamente generazionale che vede Primo a confronto con l'assenza di Giovanni e con i suoi amici, Bertolucci vuole mantenere una distanza che rifiuta conoscenza e giudizio. Anche per motivi di età dei personaggi, egli non si identifica direttamente con nessuna delle parti in causa. La sua intenzione è quella di trovare una posizione di mezzo che gli permetta in qualche modo di cogliere le fasi di una dinamica tutto sommato a lui estranea, ma che lo intriga con la sua ambiguità e con i suoi aspetti più “segreti”. «Volevo fare un film “sporco” dal punto di vista stilistico, strutturale», ha dichiarato, e queste parole unite ad altre circa la funzione dialettica attribuita al lavoro operato sul montaggio di questo film, alla molteplicità dei punti di vista dei diversi piani, alla fotografia “iperrealista” concertata con Carlo di Palma, all'intenzione di fare di La tragedia di un uomo ridicolo qualcosa di assimilabile a un film “nero”, dovrebbero in qualche modo aprire la strada alla comprensione dell'operazione intellettuale e formale che sta alle spalle del film stesso. Ma, nonostante queste istruzioni per l'uso, La tragedia continua a presentarsi come un risultato del tutto incapace di nascondere contraddizioni che lo indeboliscono e ne minano continuamente, dall'interno, il tessuto narrativo e tematico, che pure, di per sé, conterrebbe spunti di indubbio interesse ed evidenti potenzialità. Si tratta di incongruenze che hanno in parte la loro origine nella mancata corrispondenza tra le intenzioni del regista e il risultato ultimo della messa in scena, e in parte derivano invece da un atteggiamento di fondo di Bertolucci stesso nei confronti del proprio cinema, già individuabile ampiamente nei suoi prodotti precedenti, e che qui si scontra inevitabilmente con un progetto meno di quelli riducibile alla sua poetica “dotta”, assediata da rimandi letterari e intenzionalmente autoriali.
Sempre secondo le sue dichiarazioni, Bertolucci voleva sperimentare in questo film un parlato intenzionalmente “'cinematografico”, basso, per così dire, legato all'azione, laconico e scarno: operazione, questa, interessante e principalmente legata al tipo di interpretazione di un attore quale è Tognazzi. Ma non si capisce allora perché l'inserimento della voce off del protagonista che accompagna tutta la storia, ricalcando pesantemente e pleonasticamente sensazioni e pensieri che l'immagine da sola potrebbe fornire senza ulteriori filtri e mediazioni: ci si trova così alle prese con un testo “letterario” tutto sommato estraneo e inutile che copre e affievolisce quello delle immagini, riempiendo di sé i silenzi e il non detto – essenziali allo sviluppo di una storia di questo genere. Ancora, il carattere ossessivo e impastato di onirismo che contraddistingue situazioni e singoli piani ben si addiceva al disegno originale che voleva la storia come un incubo post-prandiale del protagonista, un sogno lordo e affannoso vissuto nella pesantezza fisica e mentale successiva al festino consumato in fabbrica. Diversamente, mutando tutto, come è stato fatto, in avvenimenti reali, la struttura narrativa è rimasta viziata inevitabilmente da troppi pieni e da troppi vuoti che si avvicendano trasformando i singoli momenti (e tutto il film nel suo complesso) in sequenze narrative che, dopo una partenza emozionalmente sovradeterminata, si afflosciano progressivamente perdendo di credibilità fino ad arrivare, al di là di una voluta assenza di conoscenza e di giudizio, a una reale confusione e banalità di vedute mescolate all'indubbia ispirazione che pure è anche riscontrabile in certe scelte di décor e soluzioni di sceneggiatura.