9.11.2001-9.11.2021 Vent'anni dopo

World Trade Center di Oliver Stone

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C'era chi diceva, oltremodo ingenuamente, che con la Caduta del muro di Berlino avremmo assistito alla “fine della storia”. E invece eccoci qua, con una storia diversa, che forse non ci aspettavamo, ma che di sicuro ci ha, chi più chi meno, cambiato le esistenze. Dopo quei quattro dirottamenti aerei e il conseguente attacco al WTC e al Pentagono, il mondo è cambiato, e le arti (giusto due esempi: "L’uomo che cade di Don DeLillo" per la letteratura e "The Rising" di Bruce Springsteen per la musica) hanno fin da subito registrato questo cambiamento. Il cinema non è stato da meno, dalla narrazione minuto per minuto di quel giorno (come nel rigorosissimo, tesissimo United 69 di Paul Greengrass) al racconto corale (11 settembre 2001), dai segni lasciati su chi è rimasto (Reign Over Me di Max Binder; Molto forte, incredibilmente vicino di Stephen Daldry) a quel che è successo poi (Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow). Oliver Stone ha affrontato, come sempre da par suo, l'evento parlando degli eroi di quel giorno, i pompieri newyorkesi, dipingendo di quella strada un interessante ritratto del cosiddetto homo americanus, come ha spiegato molto bene Alberto Morsiani nella sua recensione, apparsa sul numero 459, novembre 2006, di «Cineforum» che qui riproponiamo.


Gli eroi della porta accanto

Affascinato da sempre dai personaggi carismatici e dalle personalità fuori dal comune, Oliver Stone non poteva certo perdersi l’occasione di costruire un kolossal sull’angosciante tragedia dell’11 Settembre 2001, a partire dall’intrepido coraggio di alcuni umili poliziotti che, per salvare altre vite, si sono trovati sepolti dalle macerie del crollo delle Torri Gemelle. La storia, naturalmente, è vera, ma lo sono anche i protagonisti, un manipolo di agenti del Dipartimento di Polizia di Port Authority mandato a prestare i primi soccorsi all’interno del World Trade Center. Stone, con accurata diligenza, si premura di presentare i vari agenti nella loro quotidianità banale e anche sbiadita, all’alba di quella che potrebbe essere un’altra giornata come tutte le altre di ordinaria routine, e che invece si rivelerà essere una di quelle che cambiano il mondo. Lo scopo del regista è quello di mostrare persone normali all’interno di circostanze eccezionali: è proprio qui, sotto la pressione di circostanze straordinarie, che l’uomo può infatti tirare fuori il meglio di se stesso e rivelare, anche alla propria coscienza, se possiede o meno quegli “attributi” che, appunto, lo possono etichettare come tale. L’incipit del film mostra difatti il sergente di polizia John McLoughlin (Nicolas Cage) mentre si alza dal letto alle tre e mezza di mattina, guarda teneramente i figli addormentati nella stanza accanto, scende in strada e guida l’auto verso il suo posto di lavoro. Attorno a lui, le luci si accendono e la città pian piano si sveglia e prende vita, metropolitane e ferries cominciano a muoversi.

Sono le solite, consunte immagini della normalità americana colta dal punto di vista del common man, dell’uomo comune che è poi l’architrave della democrazia Usa, ed anche della sua potenza e resistenza alle avversità. L’homo americanus, quale noi lo conosciamo oggi, è una strana creatura nata nell’800 a cavallo della frontiera ed è un curioso coacervo di qualità e difetti, vizi e virtù. Il “tipo” americano attuale è diretto discendente del “tipo” del pioniere protagonista dell’espansione a Ovest, e delle sue condizioni materiali e psicologiche. Stesso ardimento e stesso spirito d’iniziativa e d’avventura; stesso gusto del rischio e stessa volontà di riuscire ad ogni costo; stesso individualismo, stessa fiducia in sé e nel “destino immancabile” degli Stati Uniti, stessa convinzione di essere protetti dal Cielo. Anche la difficoltà a concepire un modo di pensare diverso dal proprio, la diffidenza per le idee astratte, l’eccesso di generosità alternato a gesti di selvaggia brutalità, oppure il culto del successo, derivano direttamente dalle durissime condizioni di vita dei primi pionieri americani. Il senso di ospitalità o il bisogno di movimento non si spiegano se non andando col pensiero alla necessità dei pionieri di aiutarsi l’un l’altro per sopravvivere nei piccoli insediamenti o nella spinta alla continua espansione verso l’Ovest selvaggio da sottomettere e addomesticare. Anche una certa mancanza di fantasia e l’evidente orrore del paradosso trovano spiegazione nella rude praticità richiesta a quei tempi, come pure la tendenza a un moralismo che talvolta sconfina nell’ipocrisia; mentre l’incrollabile fede degli americani nella superiorità ontologica dell’american way of life si può far risalire alle battaglie vittoriose contro gli indiani e gli ispanici. Lo stesso individualismo è talvolta impastato con forme di gregarismo e conformismo: ancora una volta, è il sedimento della condizione dei pionieri, che richiedeva in parti uguali dal singolo dosi di coraggio intrepido e sottomissione ai valori e alle esigenze della comunità.

È questo il “tipo” umano che piace tanto a Oliver Stone, con cui si identifica e a cui dedica il suo cinema, e in particolare quest’ultimo film. Il Nicolas Cage che si alza prima dell’alba, vigila sulla famiglia, sorveglia nella sua qualità di poliziotto la comunità ancora addormentata attorno a lui, ed è pronto a sacrificare la vita per i valori che essa rappresenta ai suoi occhi, è esattamente l’incarnazione contemporanea, aggiornata all’11 Settembre 2001, di quel “tipo” imperituro, ed è quel “tipo”, appunto, che il film si avvia a celebrare, a tratti con una certa enfasi retorica che può risultare fastidiosa. Una variante di questo “tipo” o homo americanus (una variante, però, che è contenuta e prevista nel prototipo) è rappresentata, nel film, dalla figura del riservista Dave Karnes, ex marine che ora ha un modesto, sedentario impiego da ragioniere e che improvvisamente, udita la notizia, sente l’impellente, intima necessità di “andare ad aiutare”, non prima di essersi rasato i capelli a zero e aver indossato la divisa. Sarà lui, facendosi largo tra le macerie di Ground Zero, a individuare per primo i sopravvissuti sepolti parecchi metri sotto la superficie. È questa la variante-Rambo del “tipo”, la sua componente più “macho”: l’eroe calmo, laconico (erede un po’ spiegazzato della grande tradizione western dei John Wayne), che si sente in missione mandato da Dio per salvare o (eventualmente) per distruggere. Il common man può sempre rientrare in azione e compiere il suo dovere, perché l’homo americanus vive se stesso come l’abitante di una frontiera perpetua che non cessa di muoversi in avanti.

L’eroismo e l’altruismo che tanti personaggi dimostrano nel film, dunque, non è sentito come qualcosa di appiccicaticcio, anche se a qualche smaliziato può sembrare tale (e magari qualcosa di peggio), ma è vissuto come sostanziale all’anima americana nei momenti in cui esso ridiventa necessario. Oliver Stone, regista dell’eccesso, del resto non arretra davanti a niente, senza preoccupazioni politically correct di alcun tipo: non esita a tralasciare alcuna critica a Bush, alla sua amministrazione e al suo operato; non entra minimamente nel merito dei perché e dei percome dell’attentato alle Twin Towers. Quello che gli interessa mostrare è unicamente la reazione degli americani a una simile catastrofe. Da questo punto di vista, in effetti, il film utilizza l’attentato piuttosto come un gigantesco pretesto per la raffigurazione a tinte forti delle virtù di un popolo. A tratti, World Trade Center (a partire dallo stesso titolo) sembra quasi un film appartenente al filone catastrofico, una sorta di variante di L’inferno di cristallo: non farebbe poi molta differenza, nel film, se la causa del crollo delle Torri Gemelle, invece che a un attentato terroristico, fosse dovuta a un terremoto, a un’onda anomala o a qualche altro evento naturale... In effetti, tutto quello che si vede è il passaggio veloce di un’ombra sinistra (quella dell’aereo) sulla superficie di una delle due Torri. Non bisogna neppure commettere l’errore di considerare l’eroismo del film come appannaggio esclusivo dei cinque uomini intrappolati sotto le macerie, o dell’isolato marine alla caccia di uno spicchio di gloria personale. Tutt’altro. Vale, eccome, anche il coraggio delle mogli rimaste a casa nell’angosciosa attesa di sapere qualcosa della sorte dei loro uomini: anch’esse, custodi di quel valore prioritario che è la famiglia (una di loro aspetta un bambino), contribuiscono a costruire quell’egida patriottica che è la sostanza del film di Stone. Perfino il risvolto multirazziale della faccenda (gli “irlandesi” John e Donna McLoughlin, i “colombiani” Will e Allison Jimeno, l’“italiano” Dominick Pezulo...) è attentamente utilizzato da Stone per portare fieno alla sua cascina: in realtà, non ci sono irlandesi, colombiani o italiani nel film, ma soltanto americani pronti a compiere il proprio dovere di fronte all’emergenza, fino all’estremo sacrificio.

Ancora una volta, abbiamo a che fare con la discendenza dal “tipo” originario, costruitosi a partire dalla fusione in un grande crogiuolo razziale degli emigranti giunti da ogni parte del mondo a popolare l’America, e costituitosi come identità nazionale sottomettendo o distruggendo gli “altri”: gli indiani, soprattutto, il nemico simbolico, l’irriducibile Altro della cultura americana, come l’ha descritto Leslie Fiedler. In America, e in questo film di Stone, si è infatti americani a partire, appunto, dalla propria diversità. Lo ha scritto benissimo Norman Mailer: «Quasi tutti in America si sentono membri di un gruppo di minoranza, alienato da se stesso da un doppio senso di identità e così alla mercé di un Sé che richiede azione e ancora più azione per definire i più rudimentali confini dell’identità». Naturalmente, Stone ha cura anche di non esagerare e si ingegna nel mostrare quanto i nuovi eroi della sua personale, lunga galleria di gente con gli “attributi” (appartengono ad essa il giornalista di Salvador, i soldati di Platoon, il reduce paraplegico di Nato il quattro di luglio, Jim Morrison dei Doors, il procuratore distrettuale di JFK, la contadina di Tra cielo e terra, Alessandro Magno, perfino gli “eroi del male” carismatici come il finanziere di Wall Street o la coppia criminale di Assassini nati, e le figure di un potere magari malevolo ma “realista” e dunque giustificabile: Richard Nixon, Fidel Castro, Arafat...), siano, dopotutto, esseri umani come tutti gli altri. Ecco dunque, nel film, le conversazioni strappalacrime tra i due agenti rimasti in vita sotto le macerie; i continui flashback sulla loro vita precedente, sulle famigliole felici piene di bambini; le discussioni sul nome da dare alla figlia che nascerà; una colonna musicale sovente sbrodolante e patetica. Più in generale, si adotta il punto di vista dei poliziotti (evidente nel momento del loro arrivo all’interno della Torre, all’inizio), che è fatto di un misto di stupore e paura (ad esempio, quando incrociano le portantine che trasportano i feriti), più che di intrepido fanatismo. Altrove, però, si spinge forte il pedale della retorica patriottarda e sacrificale, ad esempio quando uno dei due superstiti, all’arrivo dei soccorsi, vuol farsi tagliare una gamba per accelerare i tempi e salvare così il collega che giace alcuni metri più in basso di lui. E Stone, come detto, non arretra davanti a nulla pur di costruire attorno ai suoi eroi un’atmosfera quasi fantastica, e di donar loro una Salvezza che profuma di Grazia e di intervento divino.