Concorso

Volevo Nascondermi di Giorgio Diritti

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Comincia cercando di calarsi nel punto di vista del suo protagonista, nel suo sguardo alienato, in soggettiva, attraverso le lacerazioni di un vecchio tabarro logoro, il viaggio di Giorgio Diritti nell’universo di Antonio Ligabue. La paura di Antonio, la sua fobia per la tosse, per il contatto con gli altri, sono immediatamente un pretesto per tornare in flash-back all’infanzia del pittore, in quella Svizzera tedesca da cui, nel 1919, a vent’anni, fu espulso, e mandato al paese del patrigno, a Gualtieri, nel mezzo di una Bassa dove i dialetti e i confini amministrativi si confondono nella neb­bia.

Quella del flash-back è una Svizzera (ancora segantiniana nella luce, e nei controluce), dove si raccolgono poche informazioni chiave: che Antonio è un bambino indisciplinato – si nasconde in un sacco, forse solo per gioco, provocando l’ira degli insegnanti e lo scherno dei compagni –;  che il patrigno, Bonfiglio Laccabue, è accusato di aver avvelenato la madre di Antonio – ed è questo quel che conta per il giovane, anche se probabilmente si trattò di un’intossicazione alimentare –; che la sua situazione psicologica peggiora gravemente durante l’adolescenza; che al rimpatrio forzato non conosce una parola d’italiano. Diritti lascia intendere, in sintesi, come in origine Antonio fosse un bambino iperattivo proveniente di una famiglia estremamente povera e cresciuto in un contesto di marginalità, nel quale anche l’origine etnica ha un ruolo importante (anche se non viene messo a tema).

Somiglia subito a uno di quei matti da slegare ‘atipici’ che comparivano, alternati a situazioni cliniche più gravi, nel film del 1975 di Agosti e Bellocchio. È difficile non andare a ripescare dagli anni ’70 quel film e, per confronto obbligato e triste ironia di cronaca, lo sceneggiato in 3 puntate di Salvatore Nocita e Cesare Zavattini che la RAI trasmise nel dicembre del 1977, quando la sostanza della legge Basaglia, che entrerà in vigore a maggio del 1978, era già discussa pubblicamente e applicata in molte strutture. E non è per rievocare Flavio Bucci o avviare un qualsiasi confronto tra la sua performance e quella di Elio Germano, che è comunque bravo e, nella dismisura del personaggio, delle sue movenze, del suo idioletto bizzarro, controllato.

È difficile non ripensare a quelle esperienze di cinema e televisione “illuminata” perché,  persa per strada la soggettività iniziale, trascinato lo spettatore in quello che poco sopra definivamo universo, ma che diventa per forza di cose un microcosmo confinato nelle piane alluvionali, il regista sembra seguire i rivoli di uno psicologismo un po’ semplificato, perdendo per strada  non solo la spinta creativa dell’artista (viene il sospetto che non si sforzi davvero mai di trovarla), ma proprio il corpo della sua pittura; trattandosi di un biopic è un problema non da poco (si potrà obiettare che non si tratta di un caso unico).

Manca, praticamente per tutto il film, un incontro, soggettivo o oggettivo, con la pittura, carnosa, materica, disperatamente violenta di Ligabue, per la quale si è spesso giustamente detto che l’etichetta di naïf andava stretta; e non bastano, non soddisfano né l’occhio né l’intelletto, le riproduzioni troppo bidimensionali su tavole masonite che Antonio maneggia di tanto in tanto e comporranno poi l’esposizione all’aperto che in qualche modo lo consacra. Fanno eccezione, ma rischiano di essere davvero poca cosa, uno spruzzo di azzurro spremuto da un tubetto in prestito dal suo primo scopritore (lo scultore e pittore Renato Mazzacurati) che finisce per confondersi col bordo di una scodella di latte, e qualche ripasso a mani bagnate sulla creta del Po con la quale Ligabue plasma sculture, quasi sempre di animali (né è un caso se ci si sofferma invece sull’aneddoto della bambola plasmata per una bambina a lui cara). Non valgono, perché rischiano di essere il correlativo di una sceneggiatura che non sa dove condurre lo spettatore i confronti istrionici, campo/controcampo, con la tela bianca.

Ovvio che non si pretende di arrivare alla falsificazione, o che Elio Germano prendesse lezioni di pittura: è lo sguardo di Diritti, attraverso la fotografia digitale di Matteo Cocco, a non relazionarsi con quell’arte, a ridurla a icona funzionale a un altro discorso, a feticcio di secondo grado, e il binomio Arte e Follia su cui si è costruita la fortuna e la memoria postuma del pittore è sbilanciato in favore di quest’ultima. È un problema di sostanza, questo dell’assenza della vera pittura dal film di Diritti, che si conferma e libera all’apparire dei dettagli dei quadri veri sui quali scorrono i titoli di coda; una sostanza che sembra limitata proprio dal medium digitale, ma anche dall’assenza di una giustezza dello sguardo, un’assenza che soffoca anche i momenti potenzialmente forti (è il caso, per esempio, dell’apparizione del leone gigante in creta, caricato a rimorchio di un trattore).

Una giustezza di sguardo che trovavamo, appunto, nella semplicità di Nocita e Zavattini, dove emergeva quella parentela sostanziale tra l’immagine analogica, la pellicola, e la pittura; dove le forme fortemente cromatiche di Ligabue emergevano dalla materia stessa della piana del Po, dalle sue nebbie, dalle sue sabbie, dal suo orizzonte basso e calmo. Da quella piana, da quell’intrico di comunità che si susseguono senza soluzione di continuità fino alla foce del fiume, Diritti riesce a far emergere – uno dei pochi pregi del film, anche se non sempre sfruttato a dovere, ed è ancora una volta un legame con una certa tradizione degli anni ’70 – un cast di comprimari dai volti, dalle parlate e dagli sguardi veri, non usurati dall'abitudine alla finzione, lontani dagli stereotipi a cui il nostro cinema troppo spesso si abbandona. C’è da sperare che, almeno questo, non rimanga impantanato nella sabbia del Po.