La conclusione delle conclusioni

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I verdetti, è noto, scontentano tutti. Sia i gufi nerissimi, sia gli integralisti nazionalisti. E ognuno, poi, dice e dà i suoi.

Non c’è niente di male. In superficie è un gioco: mettete al posto dei film un’ugola, ed è la stessa cosa. In fondo, però, c’è un equilibrio politico, cioè di mercato, che soltanto i più indipendenti e i più pazzi riescono a incrinare (tipo Tarantino che premia a Venezia de la Iglesia, con relativa indignazione della critica più raggrinzita). I Coen hanno dato dimostrazione di non esserlo, né indipendenti né pazzi: va bene, ce ne facciamo una ragione, pazienza, e anche chissenefrega. Spero che ormai sia chiaro che nessun palmarès è lo specchio della selezione a cui si riferisce, e viceversa.

Gli esempi sono numerosi, chiunque – anche qui – può dire e dare i suoi. Più che la ciliegia sulla torta, i premi sono soltanto una firma in calce, nient’altro. Giusto per dovere di cronaca: la Rossellini che a Un certain regard fa trionfare le pecore islandesi, con la giuria di cui è stata presidente, non è meno grigia, conformista e assurda dei fratelli del Minnesota che decretano miglior sceneggiatura quella di un film tagliato e inquadrato con la scure del tipico prodotto autoriale da festival, penosamente mortifero e ovviamente nichilista, e miglior attrice, in uno degli ex aequo più dementi della storia degli ex aequo (ritratto perfetto dei giurati che l’hanno inventato), una protagonista che urla e sbraita e fa l’isterica seguendo un manuale che tutti speravamo fosse ormai dimenticato. Ma, ancora, alla fine della fiera, chissenefrega.

Piuttosto mi sembra più utile guardare in tralice una manifestazione che non soltanto ha esercitato su di sé una prova di forza fuori dal comune (si veda la chiacchieratissima presenza in competizione di cinque film francesi, dei quali quattro decisamente trascurabili: se un qualunque direttore artistico nostrano avesse avuto l’ardire, l’avrebbero come minimo, e giustamente, linciato), ma che ha anche scherzato col fuori campo, o col fuori dal coro, in maniera abbastanza stolta. Le scelte di sezione sono talvolta imponderabili, ma anche chi è a conoscenza del dietro le quinte dei festival, fra imposizioni e pacchetti, non può che rimanerci secco davanti, chessò, alla subordinazione di un titolo come Comoara nel concorso n°2, il “concorsino”, il Certain, prevalentemente – e noiosamente – terzomondista. E se la Quinzaine s’è dimostrata di moscezza veramente straordinaria (mi permetterei anche di ridimensionare un pochino l’entusiasmo generale per Desplechin, che guarda caso ha vinto), non c’è nessuna ragione al mondo di scegliere come midnight screening uno slasher coreano insulso come O piseu (capitò la stessa cosa l’anno scorso con The Target).

Ciò significa non avere il benché minimo polso dello stato delle cose, e neanche della qualità popolare di un’intera produzione. Il che è francamente inaccettabile, trattandosi di Cannes. Poi possiamo lamentarci fin che vogliamo. O esultare per l’esclusione dai premi di quel titolo o di quell’altro (tutti gli hater di Sorrentino possono tranquillamente tirare un sospiro di sollievo). Importa però quanto questo festival, il grande Pac-Man, così forte e così prepotente in tutto e per tutto, non ultimo nella disposizione a maglie delle proiezioni, abbia lasciato trapelare, oggi con più violenza che in passato, fra Canal Plus, Arte e Wild Bunch (provate a mettere in fila i suoi prodotti presentati, misurate e avrete un risultato da guinness), un gusto per la scommessa a conti fatti un po’ ottuso.

Perché va bene rifiutare il solito autore (Garrel) per puntare su altri meno conosciuti e meno scontati (Brizé), però non è automaticamente una vittoria, e non fa da solo un festival o un’idea di festival: difficile che qualcuno riesca a dare un senso, al netto di ogni disprezzamento facile quanto inutile, alla preferenza in gara di un Trier o di un Franco piuttosto che di un Weerasethakul (comunque sempre uguale a se stesso) o di un Allen (che però pare non voglia dichiaratamente farne parte).

Allora, azzardo per azzardo, che si vada fino in fondo, e si metta in concorso The Shameless, che si mangia in un sol boccone tutti gli Im Sangsoo del mondo. Ma Le Festival de Cannes è bello perché è fatto e vestito così, mostruoso e indisponente, despota e umorale, tenace nell’arroganza e confidente nella propria necessità. Prendere o lasciare. Alla luce degli accreditati (si vocifera 4500), non è difficile capire che tutti, chi si lagna e chi no, chi sceglie la critica e chi l’entusiasmo, chi si ostina a voler vedere ogni cosa e chi invece si esibisce oltre il decoro favorendo esclusivamente la competizione ufficiale, ecco, proprio tutti, ma tutti tutti, prendano.