L'era della performance

focus top image

Premessa doverosa. Le frasi che seguiranno non hanno, né potrebbero avere, una pretesa di organicità. Tradiscono lo sforzo di impostare un discorso strutturato, non si illudono sulla sua riuscita. Sono pensieri che si affastellano dopo le riflessioni mosse dal lucido articolo Pigre riflessioni di Roberto Manassero sul senso attuale della critica. Non una risposta, poiché non c'è alcun bisogno, ma un tentativo di sparigliare ulteriormente le carte ponendosi a lato. Mi scuso in forma preventiva per la lunghezza, che contraddice una delle tacite regole del web, e se per arrivare a una considerazione generale capiterà di partire da esperienze personali. Credo sia assolutamente inevitabile, com'è nella natura stessa della riflessione. Chiamiamolo metodo induttivo. Che poi sia un'altra forma attraverso cui chi scrive cerchi di appropriarsi dell'oggetto della sua riflessione, è coerente con la sostanza della discussione e un inconfutabile segno dei tempi.

L'appropriazione

Ma quali tempi? L'appropriazione dell'oggetto buono è un fenomeno sempre avvenuto. In moltissime forme. Fin dall'inizio dei tempi. Quando nel suo Les projections mouvementées, uscito nel 1897, Georges Brunel esaltava meravigliato il fumo dei sigari dei giocatori e il progressivo diminuire del volume delle birre da essi bevute in Une partie d'écarté dei Lumiére, non faceva altro che piantare una delle primissime bandierine critiche nei confronti del nuovo mezzo e del suo strabiliante realismo.

L'abbiamo fatto (quasi) tutti, ancor prima dell'avvento dei social. E ancor prima di avere la possibilità di scrivere di cinema. Ricordo distintamente tre litigate molto accese nei primi tempi dell'università (io che perdevo la calma solo per la politica e per il calcio. All'epoca. Ora solo per il calcio) per difendere tre film che riguardati successivamente mi hanno fatto vergognare della mia netta presa di posizione e del mio eccesso di bile. L'unica consolazione è di non aver lasciato traccia scritta di queste insane passioni, neanche nelle memorie ormai consunte dei computer defunti nel corso degli anni.

In tutta onestà, a distanza di tanti anni lo si può ammettere, in gioco non erano i film in sé, quanto l'affermazione di una (supposta) superiore capacità di lettura dell'oggetto rispetto agli altri protagonisti della discussione. Un pretesto per una puerile guerra di posizione. Conflitto verbale per un'appropriazione strumentale: in gioco c'era l'io, probabilmente alla ricerca di agganci per le sue poche certezze, non certo l'oggetto. L'esperienza maturata e la possibilità di farsi leggere mutano solo la sicumera, non la volontà di appropriazione.

Prendiamo le riviste: se in una recensione/segnalazione (positiva, ovvio) l'impossessarsi di un film, di un autore o di un fermento altrimenti ignorato risulta evidente, il medesimo meccanismo si attiva anche al di fuori dell'ipotesi di scrittura, basti pensare alle classifiche proposte da sempre dalle riviste sui 5 o 10 migliori film dell'anno, momento che diventa l'occasione per creare l'esclusività (io soltanto ho visto questo film e questo fa di me un critico attento e originale) e la peculiarità (questi sono i miei 5 o 10 film dell'anno e questi stessi film sono emanazione della mia personalità e del mio gusto).

Questo avveniva prima che nascesse il primo blog, ancor prima, quindi, che si materializzasse la galassia Zuckerberg. L'autonomia dei blog ha allargato soltanto le possibilità, non mutato radicalmente la prospettiva alla base, ossia utilizzare la visione per affermare la propria esperienza. In molti casi, in modo non tanto dissimile dalle accese discussioni nate nell'età dell'insipienza, si ha solo a disposizione una tribuna in cui affermare il proprio pensiero di fronte al mare magnum presente sul web.

Addirittura, in una delle ultime fasi di confine prima del definitivo decollo della blogosfera (e ben prima di Facebook), mi è capitato di ricevere puntualmente, a seguito di un mio sfibrato cenno di assenso, e-mail con la recensione della settimana da parte di volenterosi appassionati che puntavano a far conoscere il proprio punto di vista a una sempre più corposa mailing list, la quale, a onor del vero, non so quante particolari illuminazioni potesse trarne.

Esserci, in una sorta di particolare gioco di ruolo in cui lo scrivere afferma se stessi a dispetto delle strade della critica ufficiale quasi sempre impraticabili, spesso per l'inaccessibilità a collaborare con molte delle più importanti riviste cartacee. Il tutto in un proliferare di blog personali, di siti specializzati in cui la partecipazione della generazione dei critici 2.0 non solo è richiesta, ma incoraggiata e rincorsa, perché per essere sul pezzo, per mappare il mappabile, è necessario un numero cospicuo di collaboratori disponibili. A dispetto di alcune pagine veramente apprezzabili, il digito ergo sum è una matassa informe che non può non esplodere dirompente nell'era Facebook, la cui forma più alta di riscontro per coloro che si cimentano con la scrittura, come si diceva già nell'articolo di Manassero, è spesso una sola: la reazione. Una reazione che non conosce soggezione, non guarda in faccia ai curricula, molte volte ambisce esclusivamente a essere destruens, ma in quei momenti in cui punta a trasformarsi in construens fornisce il metro reale di un dibattito possibile, veloce e immediato, senza sbrodolamenti inutili e finalmente democratico. Laddove sul web, il principio di democratizzazione ha fin troppo frequentemente fatto rima con massificazione, di informazioni, di analisi, di termini, di contenuti, di percorsi che s'illudono di essere critici pur essendo soltanto partecipati. Prendete un film qualunque e visitate i primi 10 siti che vi segnala la ricerca di Google: 9 dicono in forma lievemente diversa le stesse cose.

Performance e prospettive

Nel regno del digito ergo sum, ci si trova in uno spazio paradossale che più si amplia di possibilità, più, sostanzialmente, erode le opportunità di manovra, poiché tutti tendono a scrivere e sempre di meno appaiono disposti a leggere e coloro che leggono spesso lo fanno per reagire e rispondere. Il critico, il blogger, il cinefilo, l'utente di Facebook che commenta il film o la recensione con cui si trova in disaccordo per svariati motivi (che talvolta non concernono la materia del film, quanto il piedistallo critico/criptico assunto dal recensore), lo sferzante sentenziatore in 140 caratteri, attestano discorsivamente la loro presenza facendo in qualunque modo del cinema un'esperienza.

La parola magica da utilizzare in quest'ambito è performance. Sia chi scrive (più o meno di mestiere) sia chi risponde (a qualunque titolo) realizza un preciso comportamento che afferma se stesso, oltre che per la sua testimonianza diretta, anche in funzione della relazione che intesse con gli altri. L'esperienza non è solo osservare il film, ma tentare di intervenire modellandolo attraverso un filtro personale, fornendo la propria prospettiva (e se stessi) alla rete di rapporti che si hanno nella propria cerchia di (ampie) amicizie virtuali. (A ben guardare, il cinema arriva buon ultimo in un mondo che pare dover filtrare tutto. Senza scomodare i casi di cronaca nei quali anche l'uomo disperato sul cornicione che minaccia il salto nel vuoto si trasforma in soggetto da riprendere impietosamente con il proprio smartphone, rimango sempre colpito quando, allo stadio, nel momento del rigore decisivo, vedo innalzarsi davanti ai miei occhi, in curva, una volta ritenuta il luogo della passione per eccellenza, una miriade di telefoni pronti a registrare l'evento e non a viverlo in diretta. Quasi che la registrazione, oltre a testimoniare la presenza, esibisse il protagonismo di uno sguardo bisognoso di impadronirsi dell'unicità dell'evento per poi, eventualmente, postarlo su un host provider).

Non è un concetto nuovo, tutt'altro. Casetti (ne La galassia Lumiére, ma anche nei saggi di avvicinamento) e Henry Jenkins (in Fan, blogger e videogamers. L'emergere delle culture partecipative nell'era digitale e non solo) hanno detto praticamente tutto quello che si può dire sull'argomento. Daniel Dayan parlava di spettatore performato che avrebbe occupato un ruolo re-attanziale nello scambio comunicativo (ma non poteva immaginare il suo ruolo iperattivo incarnato successivamente) già all'inizio degli anni Ottanta, mentre Roger Odin, più o meno nello stesso periodo (intuizioni poi confluite in Cinéma et production de sens), parlava di modo privato nell'attribuzione del significato da parte del pubblico, condizionato dalla sua prospettiva, dalle caratteristiche del proprio vissuto, dal diaframma con cui si relaziona alla (propria) realtà.

Questa modalità privata, che è solo una delle tante istanze produttrici di significato proposte da Odin (le altre sono spettacolare, finzionale, energetica, argomentativa, artistica ed estetica), da sempre è attiva e operosa: chi non ricorda di aver letto pezzi talmente autoreferenziali da far sbiadire qualunque discorso sul film in oggetto, ridotto solo a un pretesto per parlare di sé? A causa dell'emergere di questa necessità espressiva da parte dei soggetti coinvolti, nell'attuale dibattito critico-passionale, il modo privato corre il rischio di essere prevalente, se non, nei casi estremi, addirittura esclusivo.

Il Digito ergo sum obbliga a porsi alcune domande, il cui tentativo di risposta è il necessario obiettivo per il futuro della critica, fingendo di ignorare quella parte nichilista che continua a decretarne a più riprese la morte e la fondamentale inutilità in un universo vastissimo e sovrabbondante che non offre più alcun riferimento e spesso condanna alla totale indifferenza. In una rete in cui si è sempre più smarrito il principio dell'autorevolezza (la democratizzazione/massificazione cui si accennava prima), per cui Tullio Kezich e @Freddykruger rispondono entrambi alla nuova messianica urgenza dell'uno vale uno, che cos'è che fa veramente la differenza? E una differenza è ancora possibile? Ma soprattutto, è ancora utile?

Se uno vale effettivamente uno, non si tratta più di una questione di stile o di contenuti. Forse solo di algoritmi finemente pianificati. La stringatezza e la velocità del ritmo hanno illuso sul loro successo in rete, ma poi, da un lato, la grande diffusione della concisione ha ricreato i presupposti dell'universo sconfinato ed esuberante che produce indifferenza; dall'altro, la rapidità di giudizi twittati come haiku concepiti da Pasquino e il ditirambico botta e risposta dei forum hanno spostato il baricentro verso nuclei d'interesse differenti rispetto alla critica ufficiale o presunta tale.

Prendiamo Inception, uno dei film che ha scatenato più ipotesi, commenti e reazioni negli ultimi anni. Lo stacco finale sulla trottola ruotante ha prodotto, nel film, un finale aperto andato ben oltre il lamento di frustrazione dello spettatore che ha visto sfumare sotto gli occhi la soluzione auspicata, e ha vissuto un'ulteriore e feconda esistenza sui forum, spazio nel quale un numero impressionante di appassionati ha discusso alimentandosi vicendevolmente sul senso ultimo del film, non giungendo a una soluzione certa, ma scandagliando ogni singolo aspetto di una vicenda particolarmente articolata per struttura, indizi e intreccio. Una molteplicità di prospettive coordinate che ha sopravanzato le possibilità di qualunque singola recensione, per approfondita e brillante che fosse. Una sorta di concertata narrazione transmediale che ha confermato gli scenari di Henry Jenkins e che, inevitabilmente, ha reso flessibili i confini di una critica smarrita e soppiantata dalla passione competente.

Con avvicendamenti così repentini e probabilmente indolori (chi se ne duole realmente? Forse solo una parte della critica stessa), la scrittura ricopre ancora una funzione così centrale? Sempre più spesso sono le gioviali discussioni sui canali youtube (i Roundtable o i Movie Wars di Cinefix, ad esempio) a raccogliere un cospicuo numero di visualizzazioni che sbaragliano con estrema facilità le poche centinaia di visite delle recensioni online e surclassano letteralmente le ancor minori letture di pagine cartacee. Hanno il pregio di incalzare i partecipanti l'uno con l'altro, di fornire insieme prospettive divergenti e di non prendersi mai tremendamente sul serio, quasi una regola aurea che sancisce la differenza, netta, tra cosa funziona e cosa, invece, è convinta di funzionare per trombonismo congenito e invece insegue arrancando.

Altrettanto interessante a livello di performance è tutta la congerie di retakes, recuts, mashups, video compilation proveniente dal basso, spesso da una schiera di fedelissimi che espandono l'esistenza dell'oggetto della loro venerazione (o anche del loro biasimo, nel caso delle parodie) rielaborandolo attraverso operazioni di riscrittura, accumulo, evidenziazione e sintesi, accostandosi al prodotto originale in una prospettiva personale, in qualche modo sublimata.

Probabilmente non si tratta altro che di paratesti (è la tesi di Jonathan Gray in Show Sold Separately: Promos, Spoilers, and Other Media Paratexts), però è difficile inquadrare in tale categoria i supercut di un artista come :: kogonada (sic), autore di autentici saggi visivi (e non semplici montaggi a tema) sulle idiosincrasie della messa in scena di alcuni registi per il sito della Criterion e (non a caso) per Sight & Sound.

Le mani in Bresson, gli occhi in Hitchcock, il parallelismo tra gli elementi in Malick, il punto di fuga in Kubrick, gli effetti sonori in Aronofsky, gli specchi in Bergman, la relazione tra figure, sfondo e profondità in Ozu, l'ossessione per la simmetria in Wes Anderson, i piani dal basso di Tarantino, la sorprendente meditazione sui tempi laschi del neorealismo non sono solo piccole opere di ardito bricolage, ma rappresentano un vasto lavoro di selezione, stratificazione concettuale, millimetrico montaggio e sapiente dosaggio del ritmo. Piccole perle ipnotiche che usano il cinema per ritornarvi dopo un'approfondita immersione nelle dinamiche critiche della visione. Riflessioni minuziose che accantonano la scrittura, relegano in un anfratto la parola, si nutrono dell'oggetto stesso della propria analisi e rendono il web il luogo in cui l'immagine e la sua riconversione critica convogliano verso una sintesi (forse) realmente possibile.