Il vincitore del Premio del Pubblico BNL alla Festa del Cinema di Roma

Captain Fantastic di Matt Ross

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Selvaggi. Ma anche acculturati. In armonia con la natura, ma a proprio agio con i libri, con la civiltà letteraria e scientifica. Liberi di esprimersi, ma confinati in un luogo che è fuori da ogni luogo, in fuga, in esilio.

Captain Fantastic racconta una famiglia che ha scelto di opporsi al consumismo, al qualunquismo, al capitalismo, allo stile di vita dell’americano medio, andando a vivere in una foresta. Il padre (Viggo Mortensen) sottopone i sei figli a un duro training atletico, politico, letterario. La madre, invece, non c’è: è molto malata e destinata a morire.

L’azione parte proprio da qui, dal fatto traumatico che sconvolge l’idillio famigliare – a metà strada fra una comune hippy e Thoreau – e costringe l’allegra combriccola a confrontarsi con la civiltà e le sue regole, con la “normalità”. Il fatto è che dopo dieci minuti di cinema i fantastici ragazzi di Captain Fantastic hanno già scuoiato un cervo, praticato la meditazione in cerchio, letto i Karamazov ed Eliot, risposto a domande sulla correlazione quantistica e battibeccato con papà sul trotskismo.

Si direbbe una parodia, un ironico elenco di cliché, se non fosse che Matt Ross sembra crederci davvero e, quando parte il viaggio della famiglia dentro gli orrori del benessere (su un bus scalcagnato), passiamo da battute sugli americani «tutti malati, grassi come ippopotami», a osservazioni sullo «shopping frenetico come forma primaria di interazione», dai motti rivoluzionari («potere al popolo») usati in funzione tribale-esistenziale, all’Happy Noam Chomsky Day da celebrare in contrapposizione a feste sceme come il Natale.

Intanto il cinema di Matt Ross alterna immagini mozzafiato a passaggi ruvidi e momenti costruiti per sembrare “trovati”, con la mdp che scruta i volti, trema appena, passa via e registra il vissuto della famiglia. Qui ripensi a Miss Sunshine, là balena Wes Anderson, laggiù sullo sfondo c’è una sorta di Laguna Blu come lo potrebbero rifare al Sundance.

E così la storia di per sé interessante (anche se già vista), di una diversità-alterità a confronto con il pensiero unico del consumo, della sicurezza, dell’educazione delegata, dell’ignoranza socialmente accettata, diventa un bigino di stranezze, aneddoti e moralismi al contrario. E poco importa che alla fine arrivi l’inevitabile presa di coscienza, che la comunità alternativa e libertaria costruita dal padre utopista riveli le sue contraddizioni interne, l’esercizio del controllo, la presunzione di essere l’unica verità possibile.

Matt Ross non riesce a raccontare davvero l’incontro-scontro tra due modi di intendere la vita e neppure a proporre un discorso universale sul rapporto tra genitori e figli, sulla fatica e gli equivoci dell’educare alla vita. Perché è troppo evidente e ideologico il disprezzo canzonatorio con cui viene descritto il mondo dei “normali” e troppo numerosi gli stereotipi.

Perché i ragazzi consumisti (ignoranti e cattivi) indossano le scarpe Nike mentre quelli alternativi (buoni e acculturati) conoscono la dea della vittoria; perché da una parte ci sono gli orribili videogiochi e dall’altra le variazioni Goldberg di Bach, naturalmente eseguite da Glenn Gould (i luoghi comuni del culturalmente corretto).

Altro che paradiso ispirato alla Repubblica di Platone. Siamo più dalle parti del qualunquismo hipster. Ed è un peccato, visto che l’attore Matt Ross si dimostra ottimo direttore di attori e visto che non mancano i momenti di verità ed emozione (quelli in cui si intuisce il film che avrebbe potuto essere, con meno presunzione), dentro questo “cinema indipendente” posticcio, convenzionale, insincero.