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Si dice che ci sia una maledizione che circonda la sorte dei Logan. Mutilati di guerra tornati senza un braccio dall’Iraq, oppure promesse del football locale stroncati da un infortunio in giovane età, i due fratelli Jimmy e Clyde sono per tutti due simple minded, due sempliciotti. O come diremmo noi, due sfigati. E così vengono trattati, da ex-mogli, poliziotti, ma anche dal caporale dell’impresa di costruzioni dove lavora Jimmy, che lo licenzia in tronco perché lo vede zoppicare mentre torna a casa dal lavoro. È colpa dell’assicurazione che non vuole avere niente a che fare con un lavoratore che si potrebbe infortunare: sarebbero solo dei costi. E nell’America di oggi – the land of opportunities – è possibile davvero essere licenziati in tronco solo perché si è malati.

Siamo tra il North Carolina e la West Virginia, in una specie di buco nero sociale degli Stati Uniti contemporanei. Quest’ultimo stato in particolare è in assoluto il più povero dell’intera nazione, quasi interamente rurale, dove in alcune contee l’aspettativa di vita maschile raggiunge il record negativo di 64 anni, come se fossimo nell’Africa sub-sahariana. Una volta roccaforte dei sindacati e del partito democratico (erano i tempi dell’economia delle miniere), oggi la West Virginia è afflitta da una cronica forma di marginalità economica e culturale, e non stupisce che proprio nei suoi collegi elettorali Donald Trump alle ultime elezioni abbia preso le percentuali in assoluto più alte di tutti gli Stati Uniti.

Proviamo a pensare a questo scenario, e a famiglie disastrate, carceri, risse da bar, padri che non hanno nemmeno i soldi per pagare le bollette dei cellulari e le cui figlie già a dieci anni pensano solo a partecipare a concorsi di beauty pageant per bambini. E proviamo a pensare a come normalmente il cinema “di denuncia” avrebbe rappresentato questo mondo: con il reale del documentario, il registro del dramma, oppure con quel misto di fascinazione esotica e di stigmatizzazione culturale che piace tanto ai cineasti americani “urbani” quando hanno bisogno di quel surplus di “autenticità” a buon mercato che può dare il Sud. Come diceva qualcuno, si tratta di una terra che il resto d’America adora schifare.

Logan Lucky, l’attesissimo (e probabilmente inevitabile) ritorno al cinema di Steven Soderbergh, decide invece di prendere la strada opposta. Non guardare al mondo del Sud dal punto di vista della sua miseria e della sua marginalità o arretratezza, ma dal punto di vista del suo riscatto. Come dovrebbe sempre fare il cinema: andare a tirare fuori dalle maglie del reale la virtualità della sua potenziale trasformazione. E quindi ribaltare i colori scuri e de-saturati che piacciono tanto al paradigma vittimista dei film drammatici di oggi, e virarli in una tavolozza sgargiante, coloratissima e iper-saturata: gialla, blu, porpora, arancione. Non è questo di Soderbergh puro entertainment d’evasione come hanno detto in molti, ma semmai un cinema che è capace di dare realtà all’immaginazione e di mettere sullo schermo il mondo come potrebbe essere. O come vorremmo che fosse. Cinema politico dunque, nel senso più alto e nobile che gli possiamo dare.

I Logan allora non saranno cursed – cioè maledetti da quella coltre di sfiga, disoccupazione, handicap fisici, alla quale sembrano essere condannati all’inizio del film – ma lucky. Perché bisogna essere fortunati per mettere a segno una delle rapine più inverosimili a cui si possa pensare: rapinare l’autodromo di Charlotte in North Carolina durante la Coca-Cola 600 (una delle gare più importanti del circuito del campionato NASCAR) con tutti gli occhi dell’America addosso. E per farlo naturalmente useranno l’ingegno della working class: tutto quell’insieme di conoscenze, astuzie e piccoli sotterfugi che solo un muratore che ha lavorato alle manutenzioni di quel circuito – e che quindi conosce ogni anfratto di quel luogo dall’interno – può avere. Perché è naturalmente possibile mantenere la working class in povertà, non pagarle gli ospedali, o mandarla in guerra e farla tornare mutilata, come accade davvero nell’America di oggi, ma non è possibile fare a meno del suo lavoro.

È quello il punto debole di un sistema sociale fondato sulla diseguaglianza, così come il punto debole del circuito di Charlotte. I Logan però non potranno farlo da soli ma dovranno farsi aiutare da altri come loro. All’inizio sarà solo lo scassinatore professionista Joe Bang, che è in carcere per rapina, ma poi si uniranno anche i suoi due fratelli redneck Sam e Fish, la sorella Millie che fa la parrucchiera, un ubriacone del bar di Clyde che “rilascia” del fumo da una sigaretta al momento giusto per ingannare le guardie dell’autodromo, così come i galeotti della prigione di Joe Bang che inscenano una rivolta solo per permettere una “temporanea” evasione. Sono una specie di armata bracalone di disperati e poveracci: quelli che non sono stati “fortunate son” (come cantano i Creedence dall’autoradio), che vengono presi in giro per essere stupidi, per vestirsi in modo volgare, per guidare macchine semplici e ammaccate (anche se loro, al contrario del nuovo marito della ex-moglie di Jimmy, che invece ha una bella macchina middle-class, sanno guidare col cambio manuale), ma che insieme riescono a ingannare guardie, poliziotti e FBI. E tutta l’America che li sta a guardare.

Logan Lucky mostra un mondo upside-down (ma in modo ben più intelligente e sottile di come se lo immaginano i Duffer Brothers di Stranger Things 2): dove la working class non è più umiliata e arresa, ma è perfettamente capace di mettere il proprio ingegno a servizio di un atto non ortodosso di redistribuzione; dove i poveri del Sud non sono più degli stupidi, ma sono semmai più intelligenti e astuti persino degli agenti dell’FBI; dove si riesce a costruire un’arma anche solo con un po’ di caramelle, di colla e di sale iodato; e dove persino le bambine – dato che non ci si fa mancare nemmeno un po’ di orgoglio localistica/sudista – alla fine preferiscono la (pseudo)-locale Country Roads di John Denver alla globalizzata Umbrella di Rihanna.

Ma la grande sofisticatezza del film di Soderbergh – a cui non manca però anche un tocco di sottile amarezza – è anche di mostrarci come tutto questo si cancelli da solo. Di come il colpo debba anche nascondere sé stesso, e dare l’impressione che nulla sia davvero accaduto. Questo mondo underground avrà anche avuto il proprio momento di riscatto, eppure nulla sarà davvero cambiato. I Logan saranno diventati degli “eroi popolari” come si dice alla fine, ma “di nascosto”, senza che nulla nella società sia davvero mutato. L’unico vero cambiamento sarà quello di riconoscersi, come se si fosse un gruppo carbonaro, in un dive bar di provincia.

Dopo tanto cinema del quale si dice a sproposito che rappresenti l’“America di Trump” questo piccolo, ennesimo, capolavoro di Steven Soderbergh l’America di Trump ce la fa vedere davvero. Innanzitutto perché Jimmy e Clyde Logan, e tutto il loro improbabile gruppo di aiutanti, probabilmente di Trump sono stati davvero elettori: ce lo suggerisce il fatto che siano stati nell’Esercito, che ascoltino nell’autoradio il country di Loretta Lynn (che di Trump è stata esplicita supporter) o che si vestano con le magliette della Charlie Daniels Band (che è uno dei cantautori dei Tea Party). L’America di Trump però non è solo una massa di stupidi ignoranti e di bifolchi. Non è soltanto cursed da disoccupazione, ignoranza, povertà, militarismo ecc. Può anche essere lucky. O meglio, potrebbe esserlo… se solo facessimo uno sforzo d’immaginazione.