Il Festival di Pesaro (19-26 giugno 2021), diretto anche quest'anno da Pedro Armocida, continua il suo lavoro di recupero della memoria sotrica del nostro cinema dedicando dedica la retrospettiva di questa edizione a una personalità tanto rigorosa quanto controversa, quasi un naturale pendant alla “filosofia cinefila pesarese”.
Liliana Cavani (Carpi, 1933) in effetti non è, almeno oggi, amatissima dal “mondo piccolo” della cinefilia critica. Assolutamente non antesignana della via femminista applicata al cinema, benché attivissima e in prima fila nelle battaglie sociali per l'emancipazione della donna e l'aborto, ha sempre affermato di “non aver mai pensato di essere “una” regista. Non mi sono mai posta il problema. Io ero io e basta”. Con questo spirito battagliero si è diplomata (con premio) al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma e dal 1961 al 1966, ha lavorato per la Rai, realizzando alcuni dei lavori di inchiesta più importanti della storia del documentario italiano, autentici capolavori di lucidità e analisi, ancor oggi fondamentali per capire al meglio la stagione del boom con tutte le sue contraddizioni irrisolte o innestate; autentiche “ditate nella piaga” a ritrovare nell'attualità (di allora) la Storia, da subito capaci di suscitare scandali nel paludato e appiccicoso mondo del sottopotere ma di guadagnarsi anche incondizionata stima in quelli che apprezzano il valore del Mestiere.
Provate a recuperare oggi lavori come La casa in Italia, La donna nella resistenza tra i tanti vari, vi accorgerete che non hanno perso nulla della loro chiarezza e della capacità di impatto nelle coscienze. Nasce così un percorso di grande fervore creativo e libero che approda a quel Francesco d'Assisi (1966), primo film prodotto dalla Rai, che odora di radicalismo rivoluzionario sin dalla scelta del protagonista, Lou Castel. Sono anni in cui la colta e curiosa intellettuale e cineasta sperimenta nella fiction un approccio che coniuga un'alta ispirazione letteraria (tutti i suoi film nascono sempre - o quasi - da un libro o da un pre-testo letterario) a un'immersione convinta in atmosfere da contestazione generale giovanile, da rivoluzione prima spirituale e poi politico sociale. Titoli significativi come Galileo (1968, da Brecht), I cannibali (1970, dall'Antigone), Milarepa (1973, dalla biografia del mistico). Si rilegge la Storia in nome dell'Utopia e di un bisogno quasi generazionale di liberazione, dove l'integrità morale dello sguardo e dell'intenzione prediligono uno stile scabro e urlato, post-beat. Le prospettive però, come i tempi, stanno per cambiare nuovamente. Ovvero, nel caso di Liliana Cavani: dalla Storia allo studio delle molteplici divagazioni del desiderio sino alle espressioni del disagio psichico, della follia.
Già nel 1972, con L'ospite, la cineasta mostrava attenta curiosità studiando il rapporto aspro tra la norma della società e l'eccenticità di singoli che li esclude (tema che in maniera diversa riaffronterà nel 1993 con Dove siete? Io sono qui, una delle sue regie migliori che frutterà alla protagonista Chiara Caselli vari premi). Con il caso internazionale de “l portiere di notte (1974), più amato in Francia che non da noi, in ogni caso il suo vero grande successo al box office e in assoluto film-evento, Liliana Cavani promuove (quasi contemporaneamente a La caduta degli dei di Visconti) una rilettura “diversa” del nazismo (ispirata tra l'altro dalla sua fondamentale inchiesta sulle donne nella resistenza), attraverso l'ambiguo rapporto erotico carnefice/vittima, facendo tra l'altro da involontario apripista a un filone sexy nazi di imbarazzante, seppur a volte allegra, ambiguità.
Da qui il suo cinema evolverà/involverà in letture sempre più colte e “intorcinate”: Aldilà del bene e del male (1977), La pelle (1981), Oltre la porta (1982), Interno berlinese (1985) sino alla seconda rilettura della sua figura di riferimento Francesco (1989) a fare da spartiacque. Un percorso irto di insidie estetiche e artistiche, a cui si sottrarrà sul finire degli '80 mostrando anche su schermo un'altra delle sue passioni più totalizzanti, la regia lirica (per la tv: La traviata, 1990, Cavalleria rusticana, 1996, Manon Lescaut, 1989). Dopo un dignitosissimo thriller di genere, Il gioco di Ripley (2002), tornerà infine sul piccolo schermo con intelligenti riletture biografiche su De Gasperi (2005), Einstein (2008), e il terzo Francesco (2014).
Il festival di Pesaro, la onora e la studierà, con una personale dei suoi film per il grande schermo, una tavola rotonda e un volume per Marsilio a cura di Pedro Armocida e Cristiana Paternò.