In cerca di un nuova identità

Sundance #1

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Dopo aver creato un gusto, uno stile, un certo modo di fare e intendere il cinema, sia da un punto di vista produttivo, sia da un punto di vista estetico e narrativo, il Sundance Film Festival sembra volersi scrollare di dosso i propri fastidiosi stereotipi. Quelli appunto legati al cinema indie americano, pensato e realizzato a basso budget, che affronta tematiche spesso tabù per il mainstream hollywoodiano. Un cambiamento che intende mantere riconoscibile l'identità del festival, tentando però nuove strade, cercando nuovi talenti, dando voce a nuovi paesi: il tutto per non rimanere intrappolato in un’etichetta asfittica.

Il festival ideato e diretto da Robert Redford non rinuncia certo all’imponente serie di documentari sui temi più scottanti e attuali che attraversano la politica e la società mondiale (con un occhio di riguardo, naturalmente, agli Stati Uniti, dalla strage di Newtown al ritratto di Anthony Weiner, dalla situazione economico sociale dei neri americani dopo quasi otto anni di presidenza Obama), ma getta uno sguardo anche altrove, in Europa, nel Far East, in Sud America.

E proprio nei primi giorni di proiezioni, il film che più ha impressionato è il debutto folgorante del cinese Yao Huang, Pleasure, Love: prodotto assolutamente inusuale per un film proveniente dalla Cina Continentale, il film è largamente influenzato dalle atmosfere rarefatte di Stanley Kwan, autore al quale Yao Huang dice di essersi ispirato e che ringrazia prima di ogni altro nei titoli di coda. Il film è un mélo minimalista, fatto di sguardi, di piccoli gesti, di atmosfere sospese, attraversato da un’estetica complessa e da una narrazione che procede per sottrazione, ellittica e franta. Un dittico speculare, con due amori impossibili che si intersecano senza mai incontrarsi, rimanendo volutamente incompiuti. Una certo tono programmatico del film può forse infastidire, così come la confezione sin troppo perfetta, al limite del calligrafico, o le interpretazioni dei giovani attori, ma Pleasure, Love è un lavoro di cui si sentirà parlare a lungo, che regala il volto immensamente bello della ventiduenne Yi Sun (una folgorazione che non avveniva dai Millenium Mambo…) e che finalmente, dopo diversi problemi di censura, è riuscito a trovare la sua ribalta internazionale proprio grazie al Sundance.



Sempre nell’ottica di un cambio di direzione, non sorprende che uno dei titoli accolti con più freddezza sia proprio uno dei tipici “prodotti” da Sundance, Maggie’s Plan di Rebecca Miller, già a Toronto e fra poche settimane anche a Berlino, ma ancora in cerca di una distribuzione internazionale. Il film conferma il fiato corto di un cinema tutto ombelicale, newyorkese (nel senso di un intellettualismo asfittico) che non riesce proprio a liberarsi dall’etichetta di un’opera alla Woody Allen mal riuscita e piena di ambizioni.

Chi, invece, mette a segno un bell’esordio, è Don Cheadle, con il ritratto anticonvenzionale di Miles Davis di Miles Ahead. Cheadle, padrone assoluto dell’opera – produttore, regista, interprete – si allontana il più possibile dalle trappole del biopic, raccontando solamente alcuni tratti della travagliata vicenda umana e artistica di Davis. Si inizia con un uomo distrutto, al limite del suicidio/omicidio, rincorso da un improbabile reporter di “Rolling Stone“ (Ewan McGregor) che vuole raccontare il ritorno del musicista dopo anni di buio; poi, improvvisamente, con uno stacco di macchina o con una dissolvenza incrociata, si torna indietro nel tempo, le luci e le atmosfere si fanno più calde, lo sguardo resta incantato dalle perfermonce di Davis e dalla donna che il musicista ha sempre amato, Francis. Passato e presente si intersecano continuamente, con Cheadle che evita saggiamente il one man show e tenta di restituire un personaggio pieno di contraddizioni, di tormenti, di amori assoluti: per le donne, la musica, gli strumenti musicali, le sessions in studio, i live. Ne emerge un Miles Davis complesso, sfaccettato, non maledetto, anticonvenzionale e autodistruttivo ma generoso.

Sull’attesissimo Wiener-Dog di Todd Solondz, invece, torneremo più avanti: per ora basterà dire che il regista americano è riuscito a sorprendere ancora una volta, grazie a una tecnica narrativa abilissima, come sempre funzionale alla programmatica demolizione dell’american way of life di provincia.