Qual è il limite per un regista? Fino a dove può arrivare a mostrare la realtà? Quando, all’interno di un documentario sulla vita e sulla morte di un uomo, sull’esistenza di chi vive con lui, ci si deve fermare?
Quando Ed Pincus, figura capitale del cinema documentario, scopre di avere una grave malattia che in breve lo porterà a sviluppare la leucemia, decide di filmare il tempo che gli resta in un ultimo film con Lucia Small, con cui aveva già collaborato in passato. La moglie di Pincus, Jane, inizialmente si oppone alla presenza costante della macchina da presa, che sente come un’invasione dell’intimità propria e del marito e, di conseguenza, apre una riflessione su che cosa sia, in fondo, il cinema.
Quell’occhio che si inserisce nella quotidianità di tre persone, pur facendo talvolta violenza – è molto difficile accettare di dover affrontare il dolore, le incomprensioni, i litigi, di fronte a una videocamera che registra voci e sguardi e li fissa su un supporto – svela di queste creature una grazia commovente.
In un periodo in cui la sofferenza è spettacolarizzata, urlata, pornografica, tanto da rendere l’essere umano immune da qualsiasi partecipazione profonda – in particolare i social network sono diventati luoghi in cui proliferano “coccodrilli” e frasi di circostanza – un film come One Cut, One Life, che mostra la malattia e l’avvicinarsi della morte, restituisce dignità al corpo morente. La dignità sta nello sguardo e nel modo di raccontare, e diventa un ultimo atto d’amore nei confronti di chi se ne sta andando, ma anche di chi rimane solo.
Se un credente trova nella fede un palliativo al dolore della perdita, per tutti gli altri non restano che i ricordi. Alcuni pensano intensamente alla persona cara, ne sentono la vicinanza, non potendo pregare, poiché non avrebbe alcun senso. Il film di Ed Pincus e Lucia Small è una preghiera laica, poetica, la maniera di trattenere chi se ne sta andando.
Il viso di Pincus, nel finale del film, che aspetta la primavera come fosse una rinascita, gli occhi sereni, la dolcezza della sua voce, non sono perduti, rimangono. E rimangono grazie al cinema. La grandezza di One Cut, One Life è la profonda umanità che, senza filtri, si mostra per quello che è: fragile, spaventata, coraggiosa.
Le riprese della tenuta nel Vermont dove Ed e Jane vivono, il rosso acceso delle foglie di un acero, la nebbia, l’umido: ogni cosa come se fosse guardata per la prima volta, come se l’inizio e la fine coincidessero. Pincus non rivedrà quel rosso così vivace, quella nebbia che ovatta i campi. L’immagine dell’albero scompare dagli occhi dello spettatore, come scompare da quelli di Pincus. La sua voce, che ripete una frase scritta, va scemando. C’è sempre qualcosa che rimane nelle immagini e tra un’immagine e un’altra. Una pausa. E in quella breve sospensione in cui lo sguardo si prepara a accogliere un’altra immagine, e il tempo si sostituisce al tempo, qualcosa rimane dell’immagine precedente, fosse anche sfuocata. Quello che resta è quello che il nostro occhio trattiene.
Se, dunque, i timori iniziali di Jane – di un’invasione da parte della macchina da presa di uno spazio intimo, anche da un punto di vista psicologico - potevano essere fondati, vedendo il film è evidente il ribaltamento: la molteplicità di sguardi, la videocamera che passa di mano in mano per fissare la realtà, il tempo che scorre, compongono un inno alla vita e al cinema. Il cinema sopravvive alla morte così come chi lo abita. È uno spazio fantasmatico che si rigenera e si rinnova, come le stagioni. La sfida di Ed, alla fine del film, non è di guarire, sa che il suo corpo ormai è troppo debilitato, ma di arrivare a poter vedere un’altra primavera, a volgere ancora una volta, come ha fatto per tutta la sua esistenza, lo sguardo verso la vita.