Dopo i film che l’hanno consacrato come uno dei talenti del cinema europeo – soprattutto Il regno (2018), ma anche Che Dio ci perdoni (2016) e il recente Madre (2019) – Rodrigo Sorogoyen torna a dedicarsi a un lavoro televisivo. E ci torna da autore. Antidisturbios (cioè antisommossa, nel senso della polizia) è la serie spagnola prodotta da Moviestar+ scritta e diretta da Sorogoyen, distribuita sul canale a pagamento iberico lo scorso ottobre, di cui il Torino Film Festival – nella sezione “Le stanze di Rol” – presenta in anteprima italiana i primi due episodi.
La trama è incentrata sull’indagine di cui viene fatto oggetto un reparto della polizia antisommossa madrilena formata da cinque agenti più il caposquadra, imputata di aver causato la morte di un ragazzo durante un’operazione di sfratto in un quartiere popolare della capitale. Quello che si scatena è un turbinio di conflitti, ricatti, inganni e giochi politici amplificati dalla risonanza mediatica che il caso suscita, con il coinvolgimento di attori e soggetti diversi: ufficiali e dirigenti di polizia, politici, media, comunità sociali ma anche affaristi e loschi funzionari non meglio identificati. Insomma un calderone di personaggi e storie che mettono in risalto la fragilità della tenuta politica – o se preferite la complessa impalcatura statale – di un paese democratico.
Perché se è anche sull’operato e il grado di correttezza e civiltà delle forze dell’ordine che si misura il livello di democrazia e libertà di uno stato, entrare in un territorio tanto delicato e ricco di insidie con la forza e l’espressività del cinema (sì lo sappiamo che si tratta di televisione), significa fare un vero e proprio atto politico. Antidisturbios viola un regno intorno al quale risiedono le ideologie e le pulsioni più focose di ognuno di noi, il luogo in cui si misurano le convinzioni e le dottrine politiche di ogni cittadino. E il suo merito più grande è riuscire a mettere in discussione un intero sistema culturale, sociale e politico senza prendere alcuna parte, restando lontano dalle tesi a favore o in opposizione. Non è una serie contro la polizia Antidisturbios, ma non è neanche una sua celebrazione. Gli autori raccontano gli agenti e i loro inquisitori restando dentro la complessità dei loro caratteri e del mondo di cui fanno parte, senza dare giudizi o fare della facile retorica.
Ne emerge la fotografia di un paese ricca di sfumature, in cui ogni elemento si carica di un significato doppio, multiplo. Come in molto del cinema del regista anche qui a emergere sono i non detti, le allusioni velate e i sottintesi nascosti nei comportamenti, nelle parole e nelle azioni dei personaggi. Quei giudizi che ognuno di noi dà osservando i modi di fare, il look o la maniera in cui una persona si esprime, parla, gesticola.
E allora uno sguardo ai profili Facebook degli agenti benché del tutto irrilevante ai fini delle indagini, diventa cruciale per analizzare le personalità dei sospetti e dice molto più di quello che sembra. Mentre un semplice scambio di occhiate fra la funzionaria degli affari interni Laia, la protagonista – giovane, donna e probabilmente di sinistra –, e uno dei poliziotti durante un interrogatorio mette in risalto l’evidente disprezzo di ognuno dei due nei confronti dell’altro, ma anche il sessismo che serpeggia in un corpo profondamente patriarcale e maschilista come quello di tutte le polizie del mondo. O ancora il sottile razzismo che si intuisce quando la vittima dell’episodio intorno al quale è incentrata la serie – un giovane immigrato senegalese – viene tirata in ballo da personaggi di diversa e più o meno alta estrazione e posizione pubblica.
Non da ultima, poi, la questione generazionale che in Spagna, come nel nostro paese, è uno di quegli argomenti ingombranti e difficili da affrontare ma di primaria importanza e urgenza quando si parla della tenuta e della configurazione degli apparati statali e di governo. Il modo in cui Sorogoyen introduce il tema, nei tre minuti che aprono la serie, è di una tale intelligenza, bravura e eleganza da valere da sola la visione.
Ma sono anche la forma espressiva e quella estetica a contribuire alla perfetta riuscita della serie. Le sequenze d’azione, con la macchina incollata ai poliziotti, costruiscono un universo visivo carico di autenticità. Cruda, violenta, asfissiante e quasi iperrealistica, tutta grandangoli e pedinamenti, con movimenti avanti e indietro, andata e ritorno e un montaggio appena accennato, la regia somiglia quasi a una danza. Capace di rendere anche noi che guardiamo protagonisti della messinscena: giocando con il nostro ruolo di spettatori, rendendoci testimoni ma interrogando nello stesso tempo anche le nostre coscienze a ogni inquadratura. Con un cinema (sì lo sappiamo che si tratta di televisione) che si vede raramente. Specialmente dalle nostre parti.
Il paragone con l’Italia è buono anche per capire la straordinarietà e il coraggio di una serie come Antidisturbios. Proviamo solo per un istante a immaginare un’operazione simile nel nostro paese, a una serie che tocca i nervi scoperti di uno stato democratico e le ideologie sempre più polarizzate della sua classe politica e dei suoi cittadini (ma ce lo ricordiamo ancora lo scandalo dei Carabinieri di Piacenza scoppiato la scorsa estate?). E immaginiamo che lo faccia senza usare i filtri e le metafore narrative di romanzi criminali, fatti di cronaca o saghe familiari, ma entrando a gamba tesa in un territorio minato come quello delle forze dell’ordine e delle forme di controllo statale. Cosa succederebbe? Invece di chiedercelo faremmo meglio ad augurarci che qualcuno al più presto compri questa serie e la porti in Italia. Ne abbiamo bisogno.