Las niñas è qualcosa di più di un semplice coming of age. Qualcosa d’altro. Con uno sguardo solido, quasi inedito per un’opera prima, l’aragonese Pilar Palomero – classe 1980 – confeziona un film fatto di ricordi, stratificazioni culturali e memorie collettive capace di evocare nello stesso tempo l’intimità di un diario personale e la complessità di un film storico.
1992, Celia è una ragazzina di 12 anni, vive a Saragozza con una madre single e frequenta un istituto scolastico femminile gestito dalle suore. L’amicizia con Brisa, una nuova compagna arrivata da Barcellona, le prime esperienze con i ragazzi, la scoperta del mondo attraverso piccole trasgressioni e il desiderio di crescere sembrano mal conciliarsi con la vita e gli insegnamenti della scuola cattolica. E la frizione fra questi due mondi crea ulteriore incertezza e confusione durante una fase della crescita già piena di insicurezze, traumi e eccitazioni incontrollabili.
Palomero non descrive la pubertà della sua protagonista attraverso episodi salienti, momenti simbolici o situazioni per così dire tipiche – come il primo ciclo mestruale o la scoperta della sessualità – ma punteggia il racconto di piccole, a volte piccolissime, rivelazioni, innocenti ribellioni e momenti di puro stupore per tutto ciò che è inesplorato, nuovo, ancora da scoprire. Un pomeriggio in casa con le amiche senza genitori a truccarsi, fumare una sigaretta e assaggiare gli alcolici oppure a rubare i preservativi dal cassetto del padre per srotolarli e vedere come sono fatti, fra risatine imbarazzate e impacciate ostentazioni di femminilità. Più o meno cose che abbiamo provato tutti (femmine o maschi, ognuno nei suoi universi) in un momento della vita in cui le cose succedono in fretta e il tempo per capirle non è mai abbastanza. Ciò che rende singolare la rappresentazione della regista è però il fatto di inserire tutto questo in un momento storico particolare, che al di là dell’autobiografismo e delle esperienze private che arricchiscono il film, mette in risalto l’evidente scollamento fra pensiero e educazione.
La Spagna dei primi anni Novanta, vista dalla provincia, è un paese culturalmente tumultuoso in cui la rivoluzione sessuale della movida madrileña degli anni Ottanta arriva surrogata nella volgarità più sessista della televisione pubblica celebrata da Raffaella Carrà. O attraverso campagne contro l’aids per nulla contestualizzate e oggetto di battute e leggende metropolitane da parte delle giovani generazioni. Conseguenze di un paese cattolico e ultraconformista investito da una rivoluzione dei costumi senza pari. Qualcosa che anche in Italia conosciamo bene e di cui chiunque appartenga alla generazione della regista comprende perfettamente tutti i riferimenti.
Gli anni Novanta spagnoli però sono stati come in nessun’altra parte dell’Europa occidentale un decennio di sconvolgimenti improvvisi e difficili da comprendere e tematizzare. In cui non solo permeava la controcultura degli anni Ottanta, ma esplodevano nuovi modelli culturali e la società si apriva al mondo. E non è un caso che il film sia ambientato nel 1992, l’anno delle Olimpiadi di Barcellona e dell’Expo di Siviglia, due momenti che hanno segnato indelebilmente la nascita della Spagna moderna.
Non stupisce quindi lo smarrimento di Celia, che ai turbamenti della pubertà aggiunge quelli di un mondo in cui l’educazione sessuale è insegnata dalle suore che elogiano l’astinenza, mentre fuori dalla scuola i costumi celebrano la promiscuità e esibiscono modelli femminili ipersessualizzati. Palomero insiste su questi aspetti difformi della società spagnola – che è quella in cui è cresciuta – per mettere in risalto la difficoltà della sua generazione di maturare e diventare adulta senza punti di riferimento (leggi senza genitori, che nel film spariscono o sono figure marginali e inadeguate). Ma ancora di più di diventare donna, in un paese maschilista, arretrato, repressivo nei confronti dell’emancipazione femminile e profondamente sessista.
Non è un caso che tutto nel film abbia la funzione di rendere l’ambente intorno alla protagonista un mondo claustrofobico, severo e asfissiante. Dalla scelta dei costumi (le divise scolastiche sembrano richiamare gli anni Cinquanta), al décor e fino ai colori bruni, nelle gradazioni del marrone, che compongono la fotografia. Ma anche in una regia rigorosa, che appiccica la macchina alla protagonista e non ne abbandona mai la prospettiva. Capace di lunghi momenti introspettivi, piani sequenza lineari e mai fini a stessei o, cosa rara in per un’opera prima, senza sprecare mai una sola inquadratura. Perché Las niñas non è un semplice coming of age, ma un racconto storico contemporaneo su un’epoca già dimenticata, marginalizzata o lasciata indietro. Proprio come la generazione che racconta.