Il nuovo film di Amelio cuce addosso ad Antonio Albanese i panni di un uomo mite, sorridente, sulla cui dolcezza scivolano le bruttezze del mondo metropolitano, qui rappresentato da una Milano plumbea, ispida e respingente.
Il protagonista Antonio, precario per eccellenza, sembra uscito da un brutto sogno di Zygmunt Bauman: sempre pronto a subentrare a chi in un dato giorno non può presentarsi sul luogo di lavoro, indipendentemente dall’attività che viene chiamato a svolgere. Un uomo liquido insomma, che infatti si scioglie e si commuove con incauta frequenza, al punto che sono tanti e troppi quelli che si approfittano di lui.
Alla base del film c’è l’idea di costruire una sorta di Charlot dei nostri tempi (c’è persino una sequenza che si chiude a iride, come nei film comici del muto), il cui candore dovrebbe aprire squarci feroci sul mondo dei precari, dei disoccupati e del lavoro.
Ma la storia si inceppa quasi subito, perché la comicità risulta blanda, la serenità francescana di Antonio non diverte né commuove, i tanti personaggi che incontra risultano abbozzati, incompiuti. Il film rinuncia ad andare in profondità sulle mille piccole storie che accompagnano l’itinerario urbano del protagonista. Le tiene lì, in sospeso, accantonandole con troppa fretta per andare oltre, tanto da generare nello spettatore l’impressione di trovarsi di fronte ad una lunga, articolata, interminabile premessa narrativa a qualcosa che poi non arriva mai. Il copione gira intorno alle questioni che solleva – il lavoro e la famiglia innanzitutto – senza mai avere davvero il coraggio di prenderle di petto.
Film intrepido nel titolo, ma non nella sostanza.