Venezia 2.0 (forse anche 3)

Come vogliamo definire il cinema di Gianfranco Rosi, il suo Sacro GRA? Non è un documentario, non è fiction, men che meno è docu-fiction. La messinscena non è scritta, al massimo è provocata, è realtà che viene fatta emergere dentro la realtà, e quindi filmata, sceneggiata con la macchina da presa. Vediamo luoghi, persone, cose “vere” e insieme l’atto della ripresa-scrittura, che rende tutto meno immediato ma paradossalmente più “realistico” e insieme “cinematografico”.

Cosa dire dell’intervista di Errol Morris a Donald Rumsfeld? Avrebbe dovuto incalzare il “nemico”, sbugiardarlo, opporre la sua verità militante alle bugie del potente gigione? O non è proprio la sua vicinanza-distanza sorniona a far sì che Rumsfeld esca allo scoperto, che rimanga nudo e indifeso dentro i silenzi e le esitazioni impreviste, che finisca per ingarbugliarsi nella propria stessa rete di parole e definizioni che non definiscono nulla? E’ un documento? Non proprio. Un’intervista? Non solamente. Un incontro filmato tra un cineasta e un politico-attore? Anche, ma non solo.

Possiamo chiamare ancora cinema lo straordinario Stray Dogs di Tsai Ming-liang, o ci porta in un altro territorio, che ha un codice tutto suo ed esige uno spettatore adeguatamente preparato? (ci vorrebbe un apposito training fisico-mentale). Ma senza andare sul difficile, un film come Gravity è un blockbuster con ambizioni artistiche o è cinema d’autore che si piega alle esigenze dell’intrattenimento, guadagnandoci in tutti e due i sensi?

Oppure potremmo parlare di un'opera che frammenta la realtà per rivelarla come quella di Gröning; del talento di Xavier Dolan, col suo noir palesemente imperfetto ma che senti addosso, ed esige uno sguardo critico appropriato, fatto anche di istinto, pelle, stomaco; del perfettissimo cinema di Stephen Frears che tutto manipola ma nulla falsifica, anzi, ed è gioia per gli occhi e per le orecchie.

Ci sono i film (deboli?) che esigono abbandono sentimentale, come Tracks e Joe, e quelli (intellettuamente impeccabili) che vanno guardati-vissuti con gli occhi ben aperti e la mente sveglia (Gitai, Reitz, Wiseman). Ci sono anche gli equivoci e i film “sbagliati” (Glazer, Amelio, Schrader). Mentre, per fortuna, scarseggiano i “film da festival” mediamente impegnati, obbligatoriamente minimalisti, con cui di solito si rimpolpano i programmi. Meglio un cineasta che rischia e sbraca, piuttosto che i coltivatori dell’ovvio (che comunque non mancano mai, perché sono seri, buoni e puliti).

Tutto ciò per dire che ci affascina questo confondersi di generi e categorie, l’emergere di ibridi e oggetti non identificati, ma anche la contiguità – che qua e là diventa contaminazione - tra “classico” e “moderno”, omaggio al passato e ricerca di un futuro possibile. Ci piacciono gli estremi del cinema rigoroso e puro a costo di risultare ermetico e quello furbo che sa di esserlo, e gioca con la propria furbizia, facendone un elemento del piacere del cinema.

E’ perfino banale ricordare che per ogni festival ci sono le annate buone e le annate cattive (quest'anno il Concorso ci è sembrato migliore rispetto al 2012): i bei film non si coltivano in serre protette, altrimenti rischiano di non avere sapore. Ma se questa volontà di rompere gli schemi si rivelerà una vera tendenza, e non un caso, ne vedremo delle belle. 

Per un cinema del genere, e per un festival che decidesse di coltivarlo, ci vorrà anche una critica pronta ad accoglierne gli stimoli e i capricci, a misurarne le ambizioni liberandosi degli schemi a cui è tanto affezionata, ad utilizzare nuove categorie. Noi ci siamo. E non ci sembra un caso che le scelte veneziane di quest’anno siano state apprezzate e accolte con curiosità e attenzione (analisi, approfondimenti, divagazioni, interviste) soprattutto sul web (mentre la stampa-critica "tradizionale" e "istituzionale" è rimasta un po' spiazzata). CineforumWeb ha fatto la sua parte.