Tre film per cui valeva la pena

Best of Venezia 71

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FABRIZIO TASSI

The Look of Silence di Joshua Oppenheimer

Guardare per vedere ma vedere per davvero. The Art of Killing era una mirabile provocazione (l'orrore visto con gli occhi dei carnefici). The Look of Silence mette l'arte di uccidere nella cornice di un televisore – mostra anche l'orrore che suscita l'orrore – e fa incontrare lo sguardo della vittima con quello del carnefice. Come convivere, cosa guardare, verso dove andare, insieme?

Il giovane favoloso di Mario Martone

Leopardi liberato. Dalle biografie e le mitografie, dalle rifritture scolastiche e le raccolte di aforismi, dal “pessimismo cosmico” e le poesie che non puoi non sapere a memoria. Eppure c'è tutto, poesie, “pessimismo”, biografia, in forma di romanzo quasi popolare. C'è soprattutto un uomo che coltiva l'anti-culto del dubbio, che è oltre la tradizione (Dio) e l'innovazione (la Ragione), e ci sono l'incanto, la fame d'amore e di conoscenza, il corpo che si piega ma non si spezza, aggrappato alla parola, immolato alla bellezza. Grande cinema.

Pasolini di Abel Ferrara

Vallo a dire ai pasoliniani e ai pasolinisti che Pasolini esiste a prescindere dalla “verità su Pasolini". Chi se ne frega se parla inglese, se non c'è la “politica” o “l'Italia” (ma ne siete così sicuri?), se il Porno-Teo-Kolossal non assomiglia a PPP. Abel Ferrara, finalmente ispirato (bentornato!), si affida alla trance del medium Willem Defoe, e sovrappone gli strati, le visioni, le intuizioni: Petrolio, Ninetto e l'ultima intervista, gli incontri qualsiasi e quelli fatali. Forse la morte di Pasolini non nasconde nessun mistero, ma il mistero di Pasolini perdura insieme al vuoto che ha lasciato. L'arte narrativa è finita, perché affannarsi tanto? Non rimane che la morte, il montaggio finale, per ritrovare qualcosa di ciò che Pasolini esibiva nel suo corpo, nel suo impegno, nella sua arte. Inevitabilmente incompiuto. (foto)

 

FEDERICO PEDRONI

Il cinema-quadro: A Pidgeon Sat on a Branch Reflecting on Existence di Roy Andersson

Questioni di sguardo: Brueghel sfuma in Beckett, le luci di Hopper illuminano un cinismo nordico ad alto tasso di alcolemia, la Storia si sfrangia in mille microstorie. I personaggi di Andersson si muovono su un piano inclinato verso la catastrofe dilatando i tempi e trasformando ogni piccolo movimento in un estremo barlume di umanità. La cura stilistica riflette un preciso quadro morale, il cupo sarcasmo non trascende mai in semplice misantropia, il senso del mondo si scruta nell’immobilità.

Il cinema-specchio: She’s Funny That Way di Peter Bogdanovich

I fantasmi del passato sbarcano al Lido. Il vecchio Bogdanovich costruisce un film-matrioska che si cita – siamo dalle parti di What’s Up, Doc? – omaggiando ancora una volta l’eterna screwball comedy. Un’operazione nostalgica che miracolosamente funziona, un’orgogliosa rivendicazione di un cinema di attori e di parole, un piccolo gioiello da proiettare come Last Picture Show in memoria dei bei tempi andati. Un giochino vintage, certo, ma di classe cristallina. E Imogen Poots. (foto)

Il cinema-feretro: Belluscone di Franco Maresco

Il cinema come grido disperato e come strumento politico, esistenziale prima che terreno; come altare di un fallimento, individuale e collettivo; come grotta, rovina, scavo, maceria; come corpo morto, da riesumare sul tavolo di un anatomo-patologo; come finzione e realtà e realtà e finzione; come scheletro di una crime story in cui il cadavere siamo noi; come atto disperato, ultima azione possibile nel momento della sua scomparsa; come simulacro, impossibile da costruire ma necessario da immaginare.

 

ROBERTO MANASSERO

The Postman’s White Nights di Andrei Konchalovsky

Perché siamo costretti a essere uomini, quando potremmo essere fatti della stessa materia di cui sono fatti, non i sogni, ma l’aria, l’acqua, il vento, la terra? Perché siamo costretti a fare i conti con il corpo e i desideri, quando potremmo essere liberi come gli spiriti? Konchalovsky fa il film che non ti aspetti più, una riflessione triste e dolcissima sull’insostenibile pesantezza dell’essere e l’inevitabile attaccamento alla vita da parte di tutti, anche dei più disperati degli uomini.

Olive Kitteridge di Lisa Cholodenko

A proposito di pesantezza dell’essere, Olive Kitteridge batte chiunque. Lei sulla terra, in un paesino del Maine, ci sta da sempre, ruvida e cocciuta come la roccia, ma pure comprensiva e affettuosa. Nella serie HBO la sua complessità di personaggio letterario non ne esce svilita, ma anzi trova nella McDormand un volto naturale e bellissimo. E il film è un gioiellino, leccato ovviamente, ma perfetto.

Red Amnesia di Wang Xiaoshuai

Ho sempre ammirato quei film che, a mezz’ora dalla fine, hanno il coraggio di cambiare, di entrare nel vivo, a volte di ricominciare. Anche se spesso significa sbilanciare tutto quanto. Ma Red Amnesia ne ha bisogno, di sbilanciarsi, per rendere ancora più potente il disorientamento mentale e ideologico della sua protagonista. Un grande, imperfetto film sul sogno corrotto e irrisolto della Rivoluzione culturale cinese. (foto)

 

ANDREA CHIMENTO

Birdman – L’infinito. Un flusso inarrestabile dove si mescolano riflessioni sul ruolo dell’attore, sui comic-movie, sui social network. Dopo Gravity un’altra apertura veneziana che mostra tutte le potenzialità del digitale, perennemente al confine tra realtà e finzione, strada e palcoscenico, caduta e volo, obbligo e verità.

A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence – Il passero solitario. Il teatro dell’assurdo si mescola alla pittura di Pieter Bruegel Il Vecchio (citato dallo stesso regista come fonte d’ispirazione) nel terzo capitolo della trilogia surreal-esistenziale di Roy Andersson. Un’esperienza ipnotica, irresistibile, da vedere e rivedere.

Il giovane favoloso – La ginestra. Il film italiano dell’anno è una poesia in versi che si apre e si chiude con il Cinema, al massimo del suo potenziale. Grande Elio Germano, nel ruolo più importante della sua carriera: avrebbe meritato la Coppa Volpi andata incomprensibilmente ad Adam Driver. (foto)

 

RICCARDO LASCIALFARI

Postman’s white nights di Andrej Konchalovskij

La vita quotidiana di un postino in un piccolo villaggio nel Nordovest della Russia, sul lago Kenozero. Spazi e sguardi silenziosi. Un gatto/fantasma che compare all'improvviso, lo sferragliare di un treno che trasporta razzi aerospaziali, lo spirito di Kikomora che increspa l’acqua di un fiume, vecchi ubriaconi di fronte a televisori sempre accesi. Méliès e Lumière insieme. Con approccio insieme documentaristico e simbolico, Konchalovskij ci regala un'opera “favolosa”, di inconsueta forza evocativa. Un film che riconsegna al cinema la sua più autentica missione mitopoietica. (foto)

Ghessea (Tales) di Rakhshan Bani-E’temad

Per il coraggio e il rigore espressivo con cui la Bani-E’temad tratteggia un duro e pessimisitico affresco della società iraniana contemporanea. E per la meravigliosa sequenza finale, una delle più belle e intime dichiarazioni d’amore viste da parecchi anni al cinema.

Mita Tova (The Farewell Party) di Tal Granit e Sharon Maymon

Il tabù dell’eutanasia il salsa yiddish. Un umorismo macabro che trafigge il cuore. Perché si ride, piangendo.