Damien Chazelle ed Emma Stone raccontano La La Land

«Cinema che danza»

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A guardarlo così, commosso e quasi imbarazzato dagli applausi e dai complimenti, si capisce perché il suo La La Land risulti appassionato, vero, sincero, nonostante l’uso massiccio dell’artificio, della citazione, dell’esercizio di stile. Damien Chazelle ha 31 anni ed è avviato a una luminosa carriera (partita dal successo del suo secondo film, Whiplash) ma per ora conserva una modestia invidiabile, che traspare anche dalle sue semplici risposte, non certo quelle di un cinefilo intellettuale con le idee troppo chiare.

Anche l’inevitabile «per me è già un sogno essere qui», detto da lui sembra sincero. Perché Chazelle è un giovane cineasta che ha realizzato un sogno coltivato da sempre: quello di girare un musical. Un film “vecchio stile” che ha l’ambizione di «parlare ai giovani d’oggi, di prendere un linguaggio démodé e renderlo moderno, attuale».

La questione è stilistica e anche “esistenziale”. «La realtà non è quasi mai all’altezza dei nostri sogni. Ma dobbiamo continuare a sognare. L’idea era quella di rendere la storia realistica, vera, seppur dentro una cornice fantasiosa». O per dirla con Emma Stone: «Questo è un film contro il cinismo. Che parla del lavoro e del coraggio necessari a raggiungere qualcosa. Oggi i giovani sembrano tutti così cinici, ironici, sarcastici. La La Land parla di quanto sia indispensabile continuare a sognare, per provare a realizzare i propri obiettivi».

Inutile dire che Emma Stone è splendida nel suo vestitino a fiori e che, vista la storia del film, è inevitabile la rievocazione di quando «arrivai a Los Angeles, a 14 anni, e feci anch’io l’esperienza di alcuni provini umilianti». Quanto a Chazelle, a Los Angeles ci è arrivato otto anni fa, e di quella città ricorda «qualcosa di poco amichevole», un insieme «di pregi e difetti difficili da conciliare», ma anche la sua magia - «sembra un sogno che ha luogo in un mondo reale» - tanto che alla fine ha messo nel film «tutti i cliché sulla città, ma anche la sua poesia».

Seguono considerazioni sulla fatica di ottenere certe luci e colori - «abbiamo girato tutto tra le 18 e le 19», - l’omaggio a Stanley Donen, la rievocazione immaginifica di un Marcello Mastroianni che si alza dall’auto e si mette a ballare, il racconto dell’amicizia (da quando hanno 18 anni) e della collaborazione (sono al terzo film) con Justin Hurwitz, creatore delle musiche (si sente già odore di Oscar), che erano già pronte ai tempi di Whiplash: «Lui scriveva le musiche mentre io scrivevo la sceneggiatura. C’è stato un dialogo costante che ha portato a questo risultato».

D’altra parte la musica è parte integrante della vita di Chazelle. «La musica è in tutto ciò che faccio, anche quando non suono. E nel film c’è musica anche nelle parti non cantate, la cinepresa si muove in modo musicale, e anche gli attori».

Qualche parola anche sul finale del film, che sembra tradire consapevolmente la tradizione del musical con happy end, che unisce la nostalgia per un genere, un’epoca, uno stile, con quella che a volte tutti proviamo per la vita che non abbiamo avuto: «Non so se c’è amarezza. Forse c’è soprattutto malinconia. Si tratta comunque di due persone che alla fine possono condividere dei ricordi, e questo è molto bello. Diciamo che, approfittando delle qualità e delle possibilità offerte dal genere, abbiamo cercato di suonare insieme la doppia nota della felicità e dell’infelicità. Prima o poi ogni canzone finisce. E penso che ci sia sempre qualcosa di tragico quando finisce un film con Fred Astaire e Ginger Rogers».