Fuori Concorso - Orizzonti

Dark Night di Tim Sutton

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Primo piano su una pupilla. Le immagini scorrono, si riflettono sulla superficie lucida dell’occhio, si specchiano e prendono vita. Sembra di essere in un sala cinematografica, l’occhio è immobile, catatonico, trasportato in un mondo altro, immaginario. Poco dopo scopriamo che quello sguardo appartiene a una ragazza adolescente e la osserviamo seduta su un marciapiede, quasi in trance; davanti a lei i lampeggianti blu e rossi della polizia, la scena di un crimine indefinito, fuori campo, già avvenuto.

Si apre così Dark Night di Tim Sutton. Un lavoro che, come ha detto il regista stesso, si basa sull’osservazione. Un’osservazione neutra, descrittiva, attenta ai dettagli, priva di intenti esplicativi, che gioca sullo scarto e sul nascondimento.

Ispirato al massacro di Aurora, Colorado, dove nel 2012, durante la prima di Il cavaliere oscuro - Il ritorno in un sala all’interno di un centro commerciale, l’ex studente ventiquattrenne James Holmes aprì il fuoco sul pubblico causando dodici morti, Dark Night mostra non solo alcuni episodi della vita dell’omicida, ma anche di altre persone: un veterano di guerra, una ragazza ossessionata dai selfie, alcuni skaters, la difficile relazione tra una madre e il figlio adolescente.
 

A partire da quell’occhio iniziale, così cinematografico eppure così reale, Sutton articola una complessa dialettica tra osservatore e personaggio lungo due direttrici: da un lato l’immedesimazione con i protagonisti del racconto, dall’altro il rapporto con il vuoto, il non mostrato, l’assenza che abita la narrazione. Il legame con i personaggi, seguiti da vicino, ripresi di spalle mentre affrontano con rassegnazione azioni quotidiani (divertirsi al parco, accudire un bambino, truccarsi, farsi fotografie…), rappresenta l’aspetto più tradizionale di Dark Night. Nonostante i lunghi silenzi, la completa inazione e i brevi segmenti narrativi autarchici, lo spettatore è portato a condividerne le emozioni, desideri ed esigenze. Si tratta di un’assimilazione quasi corporea, in cui si assume il punto di vista dei personaggi e al tempo stesso si assume la loro percezione delle cose, quasi trasportandoli al di qua dello schermo. Il doppio movimento amplifica la portata della finzione, aggiunge all’angoscia dei personaggi quella dello spettatore stesso. E lascia che sia la narrazione a innescare la detonazione finale e catartica.

È per questo che Dark Night risulta un film instabile e spaventoso, un viaggio orrorifico in cui tutto sembra sul punto di esplodere, ma la lacerazione non avviene mai: i personaggi non si muovono, trattengono i sentimenti, l’angoscia è latente, superficiale, spesso dissimulata. Più che concentrarsi su ciò che nella visione è pieno, materiale, Tim Sutton preferisce articolare il vuoto: stabilisce con precisione una paradossale “presenza dell’assenza”, affinché la tensione sia percepita in modo crescente, continuamente demandata a un altrove e a un fuori campo inconoscibili. Così, a essere chiamato in causa è ancora lo spettatore, chiamato a riempire gli interstizi, le assenze, per l’appunto, in cui abita il desiderio.

Dark Night è sì il racconto della strage di Aurora, ma la sua potenza è da rintracciare nella decisione di non mostrarla: il vero soggetto è il nostro sguardo, che ostinatamente desidera vedere ma gira a vuoto. A differenza di Elephant, che ricostruiva il massacro di Columbine attraverso la dispersione dei punti di vista e delle azioni, in Dark Night lavora sulla sottrazione. Non intende capire la strage, ma piuttosto rappresentare l’assenza da cui nasce attraverso buchi narrativi, ellissi, schermi neri, pause. Ed è lì, nell’impossibile identificazione con il vuoto, che emerge il desiderio di nascondere la propria violenta pienezza.