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Ora che la “guerra” con Toronto è vinta (nel senso che Toronto ha rinunciato alla guerra), che gli americani hanno fatto pace col Lido (qui ultimamente sono passati anche film da Oscar), che i cinefili “benaltristi” si sono messi il cuore in pace (altre tre edizioni per Alberto Barbera e la sua idea di Mostra), che le campane a morto per i festival diventati inutili suonano a festa perché i festival sembrano più vivi che mai (chi fa cinema fuori dai canoni ne ha un gran bisogno), forse quest’anno si tornerà a parlare solo di film. L’unica cosa che a noi interessa davvero.

Di sicuro, negli ultimi anni, non era mai accaduto che la Mostra di Venezia suscitasse tali attese trasversali, dalla stampa mainstream d’oltreoceano al passaparola social di critici e appassionati abitualmente scettici e coi fucili puntati. Buttato il Cencelli della selezione geo-tematica, Venezia quest’anno fa sventolare un gran numero di banderine a stelle e strisce in Concorso, azzarda in quota Italia una commedia naif (Piuma) e un’ambiziosa meditazione-sinfonia in forma di documentario-mosaico (Spira mirabilis), mette insieme i nomi pesanti di Wenders, Malick e Kusturica con il thriller olandese di Koolhoven (Brimstone), la fantascienza di Villeneuve (Arrival), il melodramma di Cianfrance (The Light Between Ocean) e il nuovo patchwork di generi di Amirpour (The Bad Batch), si gioca la carta pesante di Larraín (Jackie, il film predestinato) ma anche le quattro ore di Lav Diaz (The Woman Who Left).

Sembra proprio quel mix di alto e basso, narrativo e contemplativo, classico e sperimentale, ovvio e provocatorio, che ci è capitato di lodare (o magari individuarne anche solo le intenzioni) nelle annate passate, non sempre spettacolari quanto a nomi o forza delle singole sezioni, ma interessanti per la capacità di assecondare le evoluzioni imprevedibili del cinema gassoso in cui da tempo ci muoviamo a tentoni, come fosse una nebbia di immagini sempre più confuse tra loro.

È comunque probabile che alcune delle scommesse più importanti arriveranno in Orizzonti, dove ritroveremo anche Rama Burshtein (la regista de La sposa promessa) e Tim Sutton (quello di Memphis), vedremo un thriller prodotto da Kitano (Traces of Sin), incontreremo film nepalesi, iraniani, argentini, turchi, australiani, e ci potremo godere documentari importanti come quelli di Wang Bing (Kum Qian, migranti alle prese con la dura realtà di una città cinese in espansione) e Bill Morrison (Dawson City: Frozen Time, dedicato alla corsa all’oro nel Klondike), oltre a Liberami di Federica Di Giacomo, che racconta un esorcista siciliano.

A proposito di documentari: ce ne sono nove anche nel Fuori Concorso, da Austerlitz di Sergei Loznitsa (turisti negli ex-lager), a Safari di Ulrich Seidl (turisti cacciatori in Africa), dall’omaggio a Nick Cave di Dominik (One More Time With Feeling) agli anni ’70 di American Anarchist e Assalto al cielo. Senza dimenticare che in questa sezione passeranno Amir Naderi e Benoît Jacquot, l’atteso remake de I magnifici sette, i primi due episodi dello Young Pope sorrentiniano, il curioso biopic The Bleeder di Falardeu dedicato al pugile che ispirò il Rocky di Stallone.

I percorsi possibili sono davvero tanti (noi cercheremo, ad esempio, di darvi conto degli esordienti) – soprattutto se aggiungiamo le Giornate degli Autori e le scelte della Settimana della Critica – mentre sulla carta sembrano meno del solito i film che potrebbero appartenere alla categoria, ormai vituperata, delle “pellicole da festival”, quelle cioè che si nascondono dietro una vecchia e arida concezione del “cinema d’autore”, che si accontentano del grande tema, del minimalismo sociologico, della retorica anti-blockbuster, della coerenza stilistica e formale.

Vi aspettiamo tutti i giorni con le nostre recensioni, i voti, gli incontri con i protagonisti. Se siamo fortunati, fra un paio di settimane ci ritroveremo con un bel bottino di film di cui parlare, da vedere, rivedere a far vedere nelle sale.