Ricchi cacciatori austriaci e tedeschi abbattono grandi mammiferi nelle riserve al confine fra Namibia e Sud Africa. Seidl li segue, camera a mano, durante le battute di caccia e mettendoli di tanto in tanto a parlare del senso dell’attività venatoria, del loro rapporto con il continente africano, della vita e della morte.
Safari, analogamente al precedente Im Keller, è un viaggio attraverso psicologie e modi di essere di uomini e donne qualunque ma impegnati in attività stravaganti e per la maggior parte di noi assolutamente inconcepibili. Ma non è un film sulla caccia. E nemmeno un documentario di denuncia. Ma, come nello stile del regista austriaco, un racconto della realtà al quale l’occhio della cinepresa restituisce venature tragicomiche e in cui l’atto di mostrare senza censura tutti i particolari (anche i più scabrosi e intollerabili) del mondo che documenta, diventa una precisa scelta stilistica carica di significato.
Il distacco con cui Seidl filma i protagonisti – evidentemente ignari di risultare sullo schermo figure grottesche e bizzarre – va ben oltre un’intenzione puramente derisoria ed evidenzia invece il totale scollamento di senso che esiste fra l’aberrante attività che svolgono e la totale mancanza di capacità logico-analitiche per comprenderne l’irragionevolezza. Dai lunghi piani sequenza a seguire e dai totali fissi dei cacciatori, appare evidente come Seidl voglia operare un ribaltamento mediante il quale i personaggi diventino essi stessi delle sorte di animali che si prestano allo sguardo di qualcuno. Mentre puntano i fucili contro zebre, gnu, giraffe e gazzelle la macchina segue il loro vagare senza meta, l’indugiare e l’attendere sommesso e li osserva fino a rendere quasi impossibile capire se l’occhio che scruta di nascosto sia quello appoggiato al mirino o quello che sta di fronte allo schermo.
La grazia e l’eleganza dei grandi mammiferi africani inoltre, cozza con l’immagine dei corpi (altro grande tema della cinematografia di Seidl) dei ricchi cacciatori bianchi. Per lo più fuori forma, appesantiti, sudati e affaticati pur nei loro abiti mimetici in perfetto stile coloniale, questi ultimi sembrano già delle specie di carcasse in disfacimento, dei dispositivi fuori posto, fuori tempo e fuori contesto. Perfetti interpreti di un’attività indefinibile e inconcepibile sia come sport che come hobby: uno spettacolo anacronistico e sconsiderato che somiglia a un circo, oppure a uno zoo, nel quale il prezzo del biglietto è commisurato al grado di efferatezza che si è disposti a raggiungere.
Anche se, se di spettacolo si tratta, sembra che a venire a mancare siano proprio le componenti del godimento. Nonostante le spiegazioni a favore della pratica venatoria – spesso prive di coerenza, parziali e fortemente intrise di un’intransigente prospettiva coloniale, per non dire razzista – in cui i protagonisti si prodigano parlando verso l’obiettivo, al momento dell’uccisione degli animali l’atmosfera sembra farsi rarefatta e priva di ogni emozione precedentemente evocata. Non c’è alcun vero appagamento nei gesti e negli atteggiamenti dei protagonisti e la soddisfazione – benché nei crismi di un contegno emozionale tradizionalmente associato al carattere teutonico – è sempre trattenuta. Mentre lo sgomento di fronte alla facilità con la quale è possibile privare della vita esseri tanto grandi e robusti ha quasi sempre la meglio. La sequenza della morte della giraffa è esemplare in questo senso e potrebbe da sola – per forza e intensità – sostituirsi all’intero film.
Di conseguenza, tutto ciò che viene mostrato – dall’uccisione al recupero delle carcasse fino allo scuoiamento e alla macellazione – si riduce a una routine banale nella quale i cacciatori bianchi e gli addetti alla ripulitura e allo smaltimento (che invece sono ovviamente neri) si muovono con azioni e gesti consolidati, senza tradire emozioni e senza dare spiegazioni. E sempre ben attenti e pronti a non lasciare tracce, a lavar via il sangue e a raccogliere i bossoli dei proiettili esplosi. Perché un meccanismo perverso atto a proteggere un sistema di norme, ordini e valori tanto conservatori quanto arbitrari, vuole che la prima regola sia quella (almeno) di non inquinare.