Una bionda in shorts attraversa un cancello. Quel limite serve a dividere la civiltà (o, meglio, il Texas o quel che ne rimane) da una terra senza legge, un deserto che è una prigione a cielo aperto dove i reclusi – i reietti che formano il “lotto difettoso” del titolo – cercano un nuovo possibile senso di comunità rispolverando gli impulsi più ferini. La ragazza lo scoprirà presto sulla propria pelle: dopo aver spalancato gli occhioni su quel luogo inospitale, viene rapita da un gruppo di cannibali – dei bodybuilders che vivono accampati tra lamiere e resti di aeroplani caduti, rottami di una civiltà che li ha espulsi – che le segano un braccio e una gamba per cucinarsele sul barbecue. Arlen (la catatonica Suki Waterhouse) riesce comunque a fuggire e, inciampando in uno dei pochi dropouts che popolano l’assolato deserto, giunge sino a Comfort, un altro agglomerato pseudo-urbano dove la gente, in completa miseria, cancella le durezze del quotidiano rintontendosi di droghe, di musica e dei sermoni cialtroni di una sorta di predicatore che vive negli agi e ingravida tutte le ragazze del luogo.
The Bad Batch, opera seconda dell’americana di origine iraniana Ana Lily Amirpour, pesca a piene mani in tutti i possibili immaginari distopici, dai vari Mad Max a I nuovi barbari di Enzo Castellari fino alle suggestioni kinghiane di L’ombra dello scorpione, per raccontare con piglio arty e inventiva zoppicante un canonico e sanguinolento scenario da dopobomba. Se il suo acclamato esordio, il vampiresco A Girl Walks Home Alone at Night, mescolava con furba creatività un immaginario horror/western con le pulsioni autoriali del cinema indipendente (a partire dal vivido bianco e nero che richiamava l’Addiction di Abel Ferrara), in The Bad Batch il frullato pop derivativo mostra numerose aritmie.
Così Amirpour sceglie di sottolineare i dettagli gore alternandoli con lunghe inquadrature nel deserto, toglie l’azione per enfatizzare la sua natura autoriale, affastella tematiche solamente abbozzate rischiando più volte superficialità o didascalismo. La società fuori da questa zona morta resta sullo sfondo, il mondo inquadrato è solo questo: dei disperati che, in fondo, cercano solo un modo possibile per sopravvivere. Il cannibalismo, la droga, il bisogno di credere in un futuro ipotetico come un sogno – le donne incinta circuite dal trafficante/santone indossano tutte una maglietta con scritto “The Dream is Inside Me” – sono accenni narrativi a tratti pretestuosi. La stessa protagonista rimane sospesa tra vendetta e spirito di conservazione, finendo per scegliere la libertà pseudo-animale a un’agiata sottomissione. A risolvere tutto c’è la ricerca di una bambina – una metafora dell’ultimo scampolo di perduta innocenza piuttosto smaccata – e la potenziale riconciliazione che si nasconde in un’ipotesi familiare (assai disfunzionale: una Venere senza arti e un cannibale immigrato con la passione della pittura a far da guardia alla bimba angelicata) sembra una trovata retorica e un po’ stonata.
Il problema di Amirpour, che ha un evidente talento naturale, risiede forse nella sterminata fiducia che ripone in se stessa e nei propri mezzi. Una esibita presunzione che dilata il film oltre misura, che annega le idee di messa in scena (che ci sono) in un mare di semplice ricerca dello choc visivo, dell’exploitation ad ogni costo, di un ostentato disinteresse per una anche vaga coerenza di racconto. Amirpour inserisce disparati spunti di riflessione (la condizione degli ultimi, l’immigrazione, la droga come arma di coercizione di massa) per poi dimenticarsene e anche il cinico ghigno umoristico che scorre sotto la trama primitiva – e che potrebbe avvicinarla al re dei citazionisti d’essai, Quentin Tarantino – si diluisce in un film disorganico, incompiuto, a tratti megalomane. Certo: il coraggio di osare e la spudoratezza della messa in scena sono armi consone all’ambizione dei registi talentuosi; ma la sensazione che The Bad Batch lascia è quella di un monumento preventivo e autoreferenziale, e purtroppo desolatamente vuoto.