Concorso

The Favourite di Yorgos Lanthimos

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La storia di Abigail Masham, née Hill (Emma Stone), giovane aristocratica inglese, perduta dal padre in una partita a carte con un aristocratico tedesco, caduta in basso e, letteralmente, nella merda, accolta a corte come sguattera per intercessione della cugina, duchessa di Marlborough (Rachel Weisz) e però presto entrata nelle grazie della regina Anna (Olivia Colman), fino a logorare e poi dissolvere il rapporto decennale tra la sovrana e la sua amica d’infanzia, cameriera personale e amante: questa, all’osso, la trama del settimo lungometraggio di Yorgos Lanthimos. La carriera di una libertina, di una cortigiana al seguito di Anna, ultima degli Stuart, regina per dodici anni, dal 1702 fino alla morte, nel 1714: sullo sfondo la Guerra di Successione Spagnola. Messe tra parentesi, o forse semplicemente meglio camuffate, alcune delle idiosincrasie maturate nella collaborazione con Efthymis Filippou, sostituito in questo caso da Deborah Davis e Tony McNamara, Lanthimos si butta a capofitto sulle dinamiche della competizione tra le due cugine per il controllo su una monarca sopraffatta fin dalla tenera infanzia da un palinsesto di sventure fisiche e tenuta sotto scacco costante dal parlamento. Controllo, potere, ambizione e, forse, qualche residuo di amore, ma, soprattutto, crudeltà impietose e intrighi pericolosi: uno potrebbe addirittura dire, forzando la mano, che siamo di fronte all’Aldrich più esplicito che sia mai stato girato dopo la morte di Aldrich.

Detto questo, però, The Favourite sembra confermare come il fantasma più vistoso di questo nuovo corso della cinematografia di Lanthimos sia, come già si vedeva ne Il sacrificio del cervo sacro, il cinema di Kubrick: là soprattutto Shining e Eyes Wide Shut, qui, e in maniera ancora più esplicita, Barry Lyndon. Il regista greco costruisce il microcosmo della corte di Kensington Palace spostandolo nella location quasi intatta di Hatfield House, basandosi su riferimenti figurativi che sono in buona sostanza gli stessi del film di Kubrick, da Hogarth, a Reynolds, ai piccoli maestri olandesi del tardo Seicento, a Griffier, a Canaletto, che vanno ad affiancarsi al repertorio creato da John Tenniel per Lewis Carroll o alle caricature di Daumier, secondo un procedimento di anacronismo critico anch’esso kubrickiano, e che troviamo puntualmente nella colonna sonora, dove tra Purcell (che fa saltare i nervi alla regina), Bach, Händel e Vivaldi si insinuano le increspature romantiche (e psicologiche) di Schubert e Schumann.

È un confronto che si struttura però più come una coincidenza di campo che non come un’imitazione pedante: se Kubrick aveva fatto ricorso a lenti e obiettivi all’epoca ultra-tecnologici per inseguire la sostanza della pittura e dell’immaginario settecentesco, in fondo bonificato, se non igienizzato, che faceva da sfondo alla vicenda, Lanthimos decide di non nascondere il dispositivo: il fisheye “smarmellato” si offre come risorsa espressiva e non come limite compositivo, lente – ma anche specchio, come erano gli specchi convessi ancora all’inizio del ’700 – deformante, che deflagra impietosamente la superficie dell’immagine, enfatizzando le maschere e i ruoli, come si confa alla satira, letteraria e grafica. Proprio in virtù di queste scelte il film di Lanthimos, tratto da un originale che Deborah Davis aveva realizzato alcuni anni faper la radio, si inserisce in una tradizione storiografica, a lungo allineata alla sola versione fissata dalla duchessa di Marlborough nelle proprie memorie dopo l’allontanamento dalla corte, e allo stesso tempo dà corpo a un immaginario satirico alla Swift o alla Fielding, – con gli intertitoli che riprendono, nelle spaziature forzate, i modi di impaginazione dei pamphlet dell’epoca, lasciando entrare il delirio di Lilliput negli ambienti aulici, con un grado di irriverenza che forse sarebbe impossibile a un suddito della corona, ancora oggi. Ma non significa che l’autore di The Lobster neghi una riabilitazione alla monarca (sarebbe più difficile parlare di compassione), consentendole anzi di ribadire, in fondo, i limiti del controllo di fronte al potere.