Nicolas, un giovane pittore, è in vacanza con la compagna Marianne. Tramite un mercante d’arte gli si presenta l’occasione di conoscere il celebre Edouard Frenhofer, da tempo inattivo. Il vecchio artista però, dopo aver incontrato Marianne, decide di riprendere a dipingere e di portare a termine un progetto abbandonato da anni.
La prima ora di La belle noiseuse, che Jacques Rivette ha tratto da Il capolavoro sconosciuto di Honoré de Balzac, si svolge in un paesaggio campestre, tra chiacchiere e buon vino, mettendo in scena l’annusarsi dei personaggi e preparando il campo (di battaglia) a ciò che sta per succedere nelle chiuse stanze dell’atelier di Frenhofer.
Le restanti tre ore descrivono il farsi del quadro del pittore e il suo rapporto con Marianne, prima modella annoiata, poi complice conflittuale, infine quasi corresponsabile dell’opera. Le spoglie stanze dello studio hanno, come nota Marianne, un che di chiesastico e anche la preparazione dell’uomo – l’allineamento dei pennelli, la disposizione dello scarno mobilio, la scelta degli inchiostri e dei colori – ricorda la vestizione di un prete, il predisporsi a un misterioso rapporto con l’infinito.
Ma quel che impressiona (e stordisce e ipnotizza) nel film di Rivette è il suo voler spogliare la creazione artistica proprio come il corpo della sua protagonista: scarnifica la mistica sentimentale dell’ispirazione e si concentra sulla fatica tutta fisica, carnale, del segno pittorico.
L’atelier è una grotta dal sapore platonico dove le ombre prendono vita, le parole (sempre più rarefatte) diventano ordini che impongono uno sforzo d’immobilità, i pennini emettono suoni striduli – amplificati dal lavoro maniacale sul suono che alterna rari momenti musicali (la dissonante euforia di Stravinsky) a silenzi sospesi che dilatano tempi e tensioni – come delle unghie sforzate in un’arrampicata verso una qualche forma di essenziale verità.
Edouard e Marianne sfumano sempre più i contorni dei loro ruoli mentre nel mezzo, chimicamente, prende forma l’opera d’arte. La creazione è lavoro – fisico, non intellettuale: «in pittura ciò che è detto non conta» – e il travaglio non può che essere doloroso.
Rivette cerca un ponte continuo tra l’occhio che osserva e la mano che ritrae, una connessione nervosa, corporea, che coinvolge pariteticamente anche l’oggetto dello sguardo, capace di condizionare l’opera al pari dell’artista. La durata del film rappresenta quella della gestazione – e infatti la versione dimezzata per la televisione, paradossalmente, si concentra più sulle dinamiche tra i vari personaggi, quasi a intendere che per indagare il mistero dell’arte ci vuole un tempo lungo e indefinibile – e il parto del quadro lascia tracce indelebili sui protagonisti: l’arte è implacabile ma ci (ri)guarda tanto da imporre una crescita, da definire una presa di coscienza.
Perché il nostro ritratto che abbiamo in testa non è quello che maggiormente ci assomiglia. Perché la vera creazione artistica non è riprodurre un corpo – neanche quello magnetico, quasi imbarazzante nella sua aggressiva meraviglia, di Emmanuelle Béart – ma saperlo attraversare con lo sguardo, utilizzarlo per ritrarre ciò che corpo non è. Restituire la fisicità dell’anima è, in fondo, l’impervio obiettivo di ogni grande artista.