Gianni Amelio

Fantasmi d'autore

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Una vena segretamente e inconfessabilmente irrazionale Amelio l’ha sempre avuta, capace di riflettersi a margine ora nella struttura narrativa, ora nel disegno di un personaggio, ora nelle logica degli eventi. Non a caso ha spesso privilegiato una costruzione per blocchi, capitoli, situazioni destinate a degenerare in eventi tragici e irreparabili, paradossali e irreversibili.

Dietro questa volontà di stravolgere l’impressione di realtà e di piena coerenza dei fatti, delle psicologie e delle circostanze, c’è sempre stata l’insofferenza acuta verso il realismo, strano e controverso fantasma ereditato a tempo indeterminato dai padri neorealisti, Visconti, De Sica e Rossellini. Ma mai prima d’ora il rifiuto di Amelio o l’attentato deliberato ai canoni realistici (meglio: alla retorica del realismo, quindi all’ideologia dei “panni sporchi”) si era manifestato in misura così consistente come ne L’intrepido, sconcertante a causa di un tasso assai più elevato di questa forte componente irrazionale e di sfida aperta al racconto tradizionale, che forse Amelio non ha mai perseguito, ma di cui ha cautamente cercato di mantenere la parvenza.

Quella de L’intrepido invece è un’operazione diversa, liberatoria, importante proprio perché irriverente verso le mappe mentali che gli spettatori di Amelio avevano film dopo film elaborato, e all’improvviso vengono stravolte. Si verifica con lui ciò che è accaduto in passato con Bellocchio, nella fase assai contestata del sodalizio con Fagioli, e che forse ora con il senno di poi merita un approccio più eterodosso, o ancora con Ferreri a partire dagli anni Ottanta.

L’intrepido potrebbe essere insomma l’equivalente del Sogno della farfalla (Bellocchio) o Il futuro è donna (Ferreri): un film slegato dalle convenzioni del buon senso esteriore o dell’etica attiva del personaggio, il quale si rivela ininfluente e impreparato rispetto al contesto in cui si ritrova a (non) agire, proprio perché insegue in primo luogo fantasmi, ossessioni e idiosincrasie d’autore.

Ad esempio verso l’idea di lavoro da cercare, tipica degli standard alti di quel Neorealismo - diceva Carmelo Bene - con o “senza biciclette”, che qui addirittura si moltiplica all’infinito, diventando, più che buona volontà, mania trasformista, più vicina alle prerogative stravaganti delle note performance di Albanese (che di fatto alla fine, per colmo di paradosso, ribaltando lo schema de Lamerica, si sposta in Albania obbedendo a una premessa persino onomastica).

Non sfuggono in tal senso, al di là di quelli strettamente autoreferenziali (a Porte aperte nella biblioteca, a Così ridevano nel cantiere edile), i rimandi a Ladri di biciclette, Rocco e i suoi fratelli e La terra trema (come alla lettera si legge su uno striscione alle spalle del protagonista, il quale tra i tanti mestieri lavora come attacchino di manifesti pubblicitari che però non legge, in una palestra di boxeur, al mercato del pesce). O quello, macroscopico, al Ferreri de L’uomo dei cinque palloni, che concorre a spiegare la scena in cui lo straniato e straniante Antonio (buono come il) Pane si rapporta, in termini di indolenza e indifferenza alle istanze sindacali, come già il suo predecessore in Così ridevano, rispetto al corteo di bandiere rosse.

L’eccesso rapsodico, in cui si smarrisce programmaticamente il confine tra naturalismo e allegoria, favola e realtà, riflette un bisogno – dentro una produzione mainstream, perciò con effetto provocatorio ancora più marcato – di dar conto della ben più preoccupante e non meno fantasmatica economia reale o della conclamata flessibilità nel mercato del lavoro, che per i padri, attraverso il personaggio di Antonio (l’)Albanese, si traduce in impossibilità ai limiti della farsa autolesionista, mentre per le giovani generazioni di figli in suicidio programmatico o in ragionevoli attacchi di panico. Specialmente quando si ha la sventura di possedere un potenziale talento, dentro un sistema che frustra le illusioni educative e quasi per sfregio predilige i palloni gonfiati e le scatole vuote, ovvero le figure e le attività commerciali di copertura (soprattutto quando ci si muove nei territori impervi e imperscrutabili della cultura e dello spettacolo, dove l’appartenenza e il riciclaggio stavolta intellettuale travestito da ideologia sono i veri salvacondotti professionali).        

L'intrepido
Italia, 2013, 104'
Titolo originale:
id.
Regia:
Gianni Amelio
Sceneggiatura:
Gianni Amelio, Davide Lantieri
Fotografia:
Luca Bigazzi
Montaggio:
Simona Paggi
Musica:
Franco Piersanti
Cast:
Antonio Albanese, Livia Rossi, Gabriele Rendina, Alfonso Santagata, Sandra Ceccarelli
Produzione:
Palomar, Rai CInema
Distribuzione:
01

Antonio di lavoro fa il  “rimpiazzo”, prende cioè, anche solo per qualche ora, il posto di chi si assenta, per ragioni più o meno serie, dalla propria occupazione ufficiale. Si accontenta di poco ma tutto sommato è felice della vita che conduce, anche se bisogna tenersi in forma, non lasciarsi andare mai... Antonio ha un figlio di vent’anni, che suona il sax come un dio e di lavoro fa l’artista. E poi c'è Lucia, inquieta e guardinga, che nasconde un segreto dietro la sua voglia di farsi avanti nella vita.

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