CINEFORUM / 4NS

Registi davanti allo specchio: perplessi

 

Perché e per chi ci si racconta sullo schermo 

Nell’anno in cui esce il primo film di e con Nanni Moretti tratto da un soggetto non scritto da lui medesimo, senza gli elementi esplicitamente autobiografici a cui eravamo abituati, ci pensano gli altri: Paolo Sorrentino, che pure aveva già fatto emergere ricordi, ossessioni, visioni del proprio passato, apre un cassetto molto privato ed esce con È stata la mano di Dio; Marco Bellocchio, con Marx può aspettare, spalanca lo sguardo su una tragedia familiare, e su come questa ha condizionato la sua vita e tutto il suo cinema; Carlo Verdone prova a scrollarsi di dosso i suoi personaggi in una scricchiolante serie para-autobiografica per Amazon, Vita da Carlo; Kenneth Branagh con Belfast ha a sua volta sentito la necessità e trovato il respiro per raccontare la propria infanzia, la propria famiglia, la propria città di origine. Perfino Spielberg ha in postproduzione The Fabelmans, “vagamente basato” (si vedrà quanto) sui propri ricordi di bambino in Arizona. E poi, pochi dubitano del fatto che Annette di Carax sia la trasfigurazione dei drammi personali dell’autore; ma con lui a Cannes 2021 c’erano anche Nadav Lapid con Ahed’s Knee, moltissime tangenze con il suo vissuto recente, e Karim Aïnouz con Marinheiro das Montanhas, alla ricerca delle proprie radici berbere con poco più di una videocamera palmare.
Sono solo alcuni dei titoli autobiografici degli ultimi dodici mesi tutti, o quasi, concepiti durante la pandemia. La crisi stimola la riflessione e la creazione artistica, succede da secoli.

Federico e gli altri

Ma perché ci si racconta sullo schermo? Per chi? È una dialettica tra componente narcisista e voyeurismo che troviamo fin dall’inizio del cinema. Le repas de bébé dei Lumière: nel giardino di casa a Lione, Louis filma un pezzo della sua vita, il fratello Auguste, la cognata Marguerite e la piccola Andrée, una celebrazione della vita borghese nel suo accadere. Autos e bios, da subito: per la meraviglia del grande pubblico, ma tecnologicamente alla portata di pochi. Un prestigio quasi risibile, oggi che chiunque, con lo smartphone, può ritrarsi e ritrarre chi gli sta vicino, in qualsiasi momento, e la proliferazione di social media ha creato l’intasamento globale di auto-narrazioni, di  illusioni narcisistiche che ben conosciamo. Ci sono anche risvolti positivi di questa democratizzazione degli strumenti di ripresa: ora che le camere leggere sono sempre più autenticamente stylo si fa riconoscere chi sa usarle. Certo, le matite sono da tempo alla portata di tutti, ma non tutti disegnano come Michelangelo.

L’urgenza è, oggi come allora, quella di lasciare una traccia di sé. A maggior ragione se si è artisti. Prima ancora del cinema, quando la fotografia era ancora una relativa novità, Nadar crea, con una serie di ritratti e autoritratti memorabili, se non un’autobiografia, un memoriale visivo della propria parabola, la propria traccia, nel riflesso brillante del secolo borghese parigino. Al principio, quindi, almeno sul versante visivo, c’è l’autoritratto. C’è Rembrandt che con decine di raffigurazioni di sé copre quarant’anni di carriera e di vicende personali felici e drammatiche, senza rinunciare alla caricatura, alla finzione, ai travestimenti esotici. Prima di lui, c’è Parmigianino, che si ritrae da ragazzino, e nell’immagine rimane l’eco di uno specchio convesso; tornando al 600, c’è Velázquez che con gli specchi ci gioca ancora meglio, e in Las meninas lascia una traccia del proprio passaggio tra i più potenti della terra, in una straordinaria trappola barocca, che nel suo sfidare sottilmente le convenzioni del punto di vista (e del narratore) è da sempre un’ossessione per il cinema, e non solo per Godard. 

Lo specchio e l’autoritratto; ma l’immagine che uno specchio ci restituisce, fissata con la pittura o fotograficamente, è qualcosa di altro da noi: «Je est un autre», scriveva Rimbaud, ce lo ricorda bene Lacan, ed è anche, guarda caso, il titolo di uno dei saggi di Philippe Lejeune sull’autobiografia. L’immagine non è tutto: la teoria e la produzione letteraria, negli ultimi quarant’anni, da quando circola il termine autofiction, si sono impegnate a definire i confini tra questo “nuovo genere” e l’autobiografia “tradizionale”, che Lejeune vorrebbe subordinata a un patto di trasparenza tra autore e lettore: entrambe si dovrebbero basare sul principio per cui autore, narratore e protagonista tendono a coincidere, le differenze sarebbero sul grado di fictionalizzazione degli episodi narrati. Ma, se Proust è il padre putativo e Freud il padrino dell’autofiction, sono fisiologici sconfinamenti ed eccezioni di ogni genere. Senza entrare nel dibattito, immenso, verrebbe da dire che, già a partire da esempi come quello dei Lumière, il cinema ha fatto sull’autobiografismo un lavoro tutto suo, e che forse c’è qualcosa che è capitato sullo schermo prima che che sulla pagina scritta. 

Un esempio, non casuale: I vitelloni di Fellini. Una sera d’estate, cittadina sull’Adriatico, che dovrebbe essere Rimini, anche se non viene mai detto. Al Kursaal si elegge Miss Sirena 1953. La voce narrante ci introduce al contesto «… Ci sono tutti. Naturalmente ci siamo anche noi, i vitelloni: questo è Alberto, questo è Leopoldo […] ed ecco Moraldo […] il tenore che sta cantando è Riccardino […] ed ecco Fausto…», dopodiché aspettiamo invano un «e questo sono io», un sesto uomo nel gruppo, ma ciò non avviene mai; anzi, sembra un esplicito sberleffo il fatto che poco dopo Riccardo dica alla giovane Sandra, appena eletta Miss «E ora, di’ qualcosa al nostro pubblico» «Io…» «Brava, bravissima, ha detto IO». C’è un narratore, quindi, ne I vitelloni, che ha la voce ma non ha un corpo; dice sempre NOI, dichiara l’appartenenza al gruppo, ma non è mai in campo. Eppure dall’ambientazione riminese al fatto di mettere nel gruppo il fratello Riccardo, Fellini dichiara, senza esplicitarlo «è il mio gruppo, è la mia gente, il mondo da cui un giorno IO ho deciso di andarmene»; e affida alla propria voce il «Ciao!» finale, dal treno, a Guido il facchino, a quelli che restano. È un’autobiografia in prima persona plurale? Il sesto uomo è la macchina da presa? L’io narrante che potremmo dire “mobile” o “cumulativo” è forse proprio uno di quei vantaggi che il cinema può vantare rispetto alla letteratura, e si riconosce, in questo caso, proprio nel passaggio quasi impercettibile da una voce incorporea all’unica battuta detta dall’autore, sincronizzata sul labiale di Moraldo, un abbraccio di Fellini stesso a quei personaggi che sono un po’ il riflesso di persone realmente esistite nella sua vita, un po’ cinque aspetti diversi della sua stessa persona; un saluto che si estende alla sua Riviera, a Rimini. Fellini da quei posti se ne è andato quasi quindici anni prima. Nel finale de I vitelloni fugge di nuovo, fugge dalla realtà, dal neorealismo con cui è venuto al mondo cinematograficamente: «La realtà non gli piaceva più», dice Antonio Capuano, parlando proprio di Fellini, al giovane Fabietto, alter ego di Sorrentino in È stata la mano di Dio. Auto-finzioni? Per entrambi i film, per la maggior parte dei titoli con questo tipo di soggetto, ce la caveremo con la definizione più duttile di film semi-autobiografico.

A parte l’eccezione felliniana, però, la gran parte delle pellicole che parlano del proprio autore lavorano sulla creazione di un alter ego a cui affidare le proprie istanze biografiche, un doppio che ha un nome e/o un corpo precisi: sappiamo bene quanto ne I 400 colpi Antoine Doinel sia François Truffaut, e quanto continui ad esserlo nei film successivi del ciclo interpretato da Jean-Pierre Léaud, anche quando la convergenza con la vita reale è meno precisa e più rielaborata. E non si può ignorare l’aspetto autoriflessivo di Effetto Notte (1973), dove, non a caso Truffaut si ritaglia il ruolo del regista Ferrand. Sappiamo riconoscere altrettanto bene quanto dello stesso Fellini sia affidato al corpo e al personaggio di Mastroianni, e non solo ovviamente in , che è l’altro titolo solitamente letto in chiave semi-autobiografica. 

Non si può dimenticare, e non solo per la durata dell’opera di cui è protagonista, Hermann, l’alter ego di Edgar Reitz, soprattutto quando assume un ruolo centrale e il volto, lo sguardo di Henry Arnold in Heimat 2 (1992) e Heimat 3 (2004). Sebbene l’autore abbia posto una distanza, facendo di lui un musicista, è comunque nell’aspetto corale di tutta la saga, incluso il “prequel” (L’altra Heimat, 2013), che si riflette il lavoro sulla memoria personale e collettiva, e non a caso tutte e quattro le serie hanno Cronaca nel sottotitolo. Heimat ist ein Raum aus Zeit (L’Heimat è uno spazio di tempo) è invece un titolo molto più recente, 2019, di Thomas Heise, un lavoro carsico su quel che resta dei documenti, soprattutto foto e lettere, della sua famiglia, la loro storia che è riflesso di cent’anni di storia della Germania, e che è la storia dell’autore stesso, non così lontano da Reitz, ma tecnicamente agli antipodi: non-fiction e voice over, un colossal antispettacolare e ipnotico al tempo stesso. 

Negli stessi anni dei primi Heimat reitziani, dall’altra parte della Cortina, Márta Mészáros gira una trilogia che ricalca la propria storia, e quella della propria famiglia rientrata in Ungheria dall’Urss: Diario per i miei figli (1984), Diario per i miei amori (1987) e Diario per mio padre e mia madre (1990); anche la sua protagonista è un alter-ego, Juli, affidata a Zsuzsa Czinkóczi, interprete di molti dei suoi film; del 2000 è un quarto Diario, esplicitamente autobiografico, sulla propria infanzia in Urss, dove però lo smalto e il rigore dei primi sembra perso.

Se Almodóvar è autore di «un’ininterrotta autobiografia immaginaria», e il suo alter-ego in Dolor y Gloria è, con tutte le complicazioni del caso, un Banderas straordinario (e straordinariamente mimetico), nondimeno le varie Pepi, Gloria, Raimunda, Julieta sono figure in cui il suo vissuto si rispecchia: nulla di sorprendente, «Madame Bovary, c’est moi!», diceva Flaubert, e forse anche Fellini avrebbe detto «Casanova, sono io!».

 

Nell’anno in cui esce il primo film di e con Nanni Moretti tratto da un soggetto non scritto da lui medesimo, senza gli elementi esplicitamente autobiografici a cui eravamo abituati, ci pensano gli altri: Paolo Sorrentino, che pure aveva già fatto emergere ricordi, ossessioni, visioni del proprio passato, apre un cassetto molto privato ed esce con È stata la mano di Dio; Marco Bellocchio, con Marx può aspettare, spalanca lo sguardo su una tragedia familiare, e su come questa ha condizionato la sua vita e tutto il suo cinema; Carlo Verdone prova a scrollarsi di dosso i suoi personaggi in una scricchiolante serie para-autobiografica per Amazon, Vita da Carlo; Kenneth Branagh con Belfast ha a sua volta sentito la necessità e trovato il respiro per raccontare la propria infanzia, la propria famiglia, la propria città di origine. Perfino Spielberg ha in postproduzione The Fabelmans, “vagamente basato” (si vedrà quanto) sui propri ricordi di bambino in Arizona. E poi, pochi dubitano del fatto che Annette di Carax sia la trasfigurazione dei drammi personali dell’autore; ma con lui a Cannes 2021 c’erano anche Nadav Lapid con Ahed’s Knee, moltissime tangenze con il suo vissuto recente, e Karim Aïnouz con Marinheiro das Montanhas, alla ricerca delle proprie radici berbere con poco più di una videocamera palmare.

 

Sono solo alcuni dei titoli autobiografici degli ultimi dodici mesi tutti, o quasi, concepiti durante la pandemia. La crisi stimola la riflessione e la creazione artistica, succede da secoli.

 

Federico e gli altri

 

Ma perché ci si racconta sullo schermo? Per chi? È una dialettica tra componente narcisista e voyeurismo che troviamo fin dall’inizio del cinema. Le repas de bébé dei Lumière: nel giardino di casa a Lione, Louis filma un pezzo della sua vita, il fratello Auguste, la cognata Marguerite e la piccola Andrée, una celebrazione della vita borghese nel suo accadere. Autos e bios, da subito: per la meraviglia del grande pubblico, ma tecnologicamente alla portata di pochi. Un prestigio quasi risibile, oggi che chiunque, con lo smartphone, può ritrarsi e ritrarre chi gli sta vicino, in qualsiasi momento, e la proliferazione di social media ha creato l’intasamento globale di auto-narrazioni, di illusioni narcisistiche che ben conosciamo. Ci sono anche risvolti positivi di questa democratizzazione degli strumenti di ripresa: ora che le camere leggere sono sempre più autenticamente stylo si fa riconoscere chi sa usarle. Certo, le matite sono da tempo alla portata di tutti, ma non tutti disegnano come Michelangelo.

 

L’urgenza è, oggi come allora, quella di lasciare una traccia di sé. A maggior ragione se si è artisti. Prima ancora del cinema, quando la fotografia era ancora una relativa novità, Nadar crea, con una serie di ritratti e autoritratti memorabili, se non un’autobiografia, un memoriale visivo della propria parabola, la propria traccia, nel riflesso brillante del secolo borghese parigino. Al principio, quindi, almeno sul versante visivo, c’è l’autoritratto. C’è Rembrandt che con decine di raffigurazioni di sé copre quarant’anni di carriera e di vicende personali felici e drammatiche, senza rinunciare alla caricatura, alla finzione, ai travestimenti esotici. Prima di lui, c’è Parmigianino, che si ritrae da ragazzino, e nell’immagine rimane l’eco di uno specchio convesso; tornando al 600, c’è Velázquez che con gli specchi ci gioca ancora meglio, e in Las meninas lascia una traccia del proprio passaggio tra i più potenti della terra, in una straordinaria trappola barocca, che nel suo sfidare sottilmente le convenzioni del punto di vista (e del narratore) è da sempre un’ossessione per il cinema, e non solo per Godard.

 

Lo specchio e l’autoritratto; ma l’immagine che uno specchio ci restituisce, fissata con la pittura o fotograficamente, è qualcosa di altro da noi: «Je est un autre», scriveva Rimbaud, ce lo ricorda bene Lacan, ed è anche, guarda caso, il titolo di uno dei saggi di Philippe Lejeune sull’autobiografia. L’immagine non è tutto: la teoria e la produzione letteraria, negli ultimi quarant’anni, da quando circola il termine autofiction, si sono impegnate a definire i confini tra questo “nuovo genere” e l’autobiografia “tradizionale”, che Lejeune vorrebbe subordinata a un patto di trasparenza tra autore e lettore: entrambe si dovrebbero basare sul principio per cui autore, narratore e protagonista tendono a coincidere, le differenze sarebbero sul grado di fictionalizzazione degli episodi narrati. Ma, se Proust è il padre putativo e Freud il padrino dell’autofiction, sono fisiologici sconfinamenti ed eccezioni di ogni genere. Senza entrare nel dibattito, immenso, verrebbe da dire che, già a partire da esempi come quello dei Lumière, il cinema ha fatto sull’autobiografismo un lavoro tutto suo, e che forse c’è qualcosa che è capitato sullo schermo prima che che sulla pagina scritta.

 

Un esempio, non casuale: I vitelloni di Fellini. Una sera d’estate, cittadina sull’Adriatico, che dovrebbe essere Rimini, anche se non viene mai detto. Al Kursaal si elegge Miss Sirena 1953. La voce narrante ci introduce al contesto «… Ci sono tutti. Naturalmente ci siamo anche noi, i vitelloni: questo è Alberto, questo è Leopoldo […] ed ecco Moraldo […] il tenore che sta cantando è Riccardino […] ed ecco Fausto…», dopodiché aspettiamo invano un «e questo sono io», un sesto uomo nel gruppo, ma ciò non avviene mai; anzi, sembra un esplicito sberleffo il fatto che poco dopo Riccardo dica alla giovane Sandra, appena eletta Miss «E ora, di’ qualcosa al nostro pubblico» «Io…» «Brava, bravissima, ha detto IO». C’è un narratore, quindi, ne I vitelloni, che ha la voce ma non ha un corpo; dice sempre NOI, dichiara l’appartenenza al gruppo, ma non è mai in campo. Eppure dall’ambientazione riminese al fatto di mettere nel gruppo il fratello Riccardo, Fellini dichiara, senza esplicitarlo «è il mio gruppo, è la mia gente, il mondo da cui un giorno IO ho deciso di andarmene»; e affida alla propria voce il «Ciao!» finale, dal treno, a Guido il facchino, a quelli che restano. È un’autobiografia in prima persona plurale? Il sesto uomo è la macchina da presa? L’io narrante che potremmo dire “mobile” o “cumulativo” è forse proprio uno di quei vantaggi che il cinema può vantare rispetto alla letteratura, e si riconosce, in questo caso, proprio nel passaggio quasi impercettibile da una voce incorporea all’unica battuta detta dall’autore, sincronizzata sul labiale di Moraldo, un abbraccio di Fellini stesso a quei personaggi che sono un po’ il riflesso di persone realmente esistite nella sua vita, un po’ cinque aspetti diversi della sua stessa persona; un saluto che si estende alla sua Riviera, a Rimini. Fellini da quei posti se ne è andato quasi quindici anni prima. Nel finale de I vitelloni fugge di nuovo, fugge dalla realtà, dal neorealismo con cui è venuto al mondo cinematograficamente: «La realtà non gli piaceva più», dice Antonio Capuano, parlando proprio di Fellini, al giovane Fabietto, alter ego di Sorrentino in È stata la mano di Dio. Auto-finzioni? Per entrambi i film, per la maggior parte dei titoli con questo tipo di soggetto, ce la caveremo con la definizione più duttile di film semi-autobiografico.

 

A parte l’eccezione felliniana, però, la gran parte delle pellicole che parlano del proprio autore lavorano sulla creazione di un alter ego a cui affidare le proprie istanze biografiche, un doppio che ha un nome e/o un corpo precisi: sappiamo bene quanto ne I 400 colpi Antoine Doinel sia François Truffaut, e quanto continui ad esserlo nei film successivi del ciclo interpretato da Jean-Pierre Léaud, anche quando la convergenza con la vita reale è meno precisa e più rielaborata. E non si può ignorare l’aspetto autoriflessivo di Effetto Notte (1973), dove, non a caso Truffaut si ritaglia il ruolo del regista Ferrand. Sappiamo riconoscere altrettanto bene quanto dello stesso Fellini sia affidato al corpo e al personaggio di Mastroianni, e non solo ovviamente in , che è l’altro titolo solitamente letto in chiave semi-autobiografica.

 

Non si può dimenticare, e non solo per la durata dell’opera di cui è protagonista, Hermann, l’alter ego di Edgar Reitz, soprattutto quando assume un ruolo centrale e il volto, lo sguardo di Henry Arnold in Heimat 2 (1992) e Heimat 3 (2004). Sebbene l’autore abbia posto una distanza, facendo di lui un musicista, è comunque nell’aspetto corale di tutta la saga, incluso il “prequel” (L’altra Heimat, 2013), che si riflette il lavoro sulla memoria personale e collettiva, e non a caso tutte e quattro le serie hanno Cronaca nel sottotitolo. Heimat ist ein Raum aus Zeit (L’Heimat è uno spazio di tempo) è invece un titolo molto più recente, 2019, di Thomas Heise, un lavoro carsico su quel che resta dei documenti, soprattutto foto e lettere, della sua famiglia, la loro storia che è riflesso di cent’anni di storia della Germania, e che è la storia dell’autore stesso, non così lontano da Reitz, ma tecnicamente agli antipodi: non-fiction e voice over, un colossal antispettacolare e ipnotico al tempo stesso.

 

Negli stessi anni dei primi Heimat reitziani, dall’altra parte della Cortina, Márta Mészáros gira una trilogia che ricalca la propria storia, e quella della propria famiglia rientrata in Ungheria dall’Urss: Diario per i miei figli (1984), Diario per i miei amori (1987) e Diario per mio padre e mia madre (1990); anche la sua protagonista è un alter-ego, Juli, affidata a Zsuzsa Czinkóczi, interprete di molti dei suoi film; del 2000 è un quarto Diario, esplicitamente autobiografico, sulla propria infanzia in Urss, dove però lo smalto e il rigore dei primi sembra perso.

 

Se Almodóvar è autore di «un’ininterrotta autobiografia immaginaria», e il suo alter-ego in Dolor y Gloria è, con tutte le complicazioni del caso, un Banderas straordinario (e straordinariamente mimetico), nondimeno le varie Pepi, Gloria, Raimunda, Julieta sono figure in cui il suo vissuto si rispecchia: nulla di sorprendente, «Madame Bovary, c’est moi!», diceva Flaubert, e forse anche Fellini avrebbe detto «Casanova, sono io!».