Pensieri oziosi

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Pensieri oziosi

Animali fantastici: il blockbuster che aspettavo da tempo

Mi è sempre stato antipatico, Harry Potter. 

Ironia della sorte fui proprio io, tra tutti i miei colleghi, a ricevere l’onore di una speciale set visit di due giorni sul set dell’Ordine della Fenice, quinto film di una serie che non mi è mai piaciuta, non mi ha mai conquistato né convinto, con la parziale eccezione del terzo capitolo diretto da un Cuaron pre-Gravity

Mi è sempre stato antipatico, Harry Potter, con gli occhialetti tondi e la frangetta da bravo ragazzo, con l’amica secchiona e pedante destinata a diventare una rompicoglioni di proporzioni magiche, con l’amico roscio che lui magari è pure simpatico ma troppo sfigato, dai.

Parlo dei film perché, lo ammetto, dei libri da cui sono stati tratti non ho mai letto un rigo, avendo sempre prediletto, in materia di letteratura per ragazzi, da snob quale sono, Una serie di sfortunati eventi di  Lemony Snicket. Negli anni in cui sono usciti, poi, con l’età che avevo, figuriamoci se mi veniva voglia di mettermi a sfogliarli. Pregiudizi? Certamente, li abbiamo tutti e se diciamo di non averne mentiamo a noi stessi prima ancora che agli altri. 

Fatto sta, insomma, che nei confronti di J.K. Rowling di pregiudizi ne nutrivo diversi: e quando è stata annunciata la realizzazione di Animali fantastici e dove trovarli, credevo di sapere già tutto: che film vuoi possa mai venire fuori da un libriccino enciclopedico di poche pagine, anche divertente a modo suo (sì, quello lo conosco), ma privo di una qualsiasi linea narrativa? Che operazione sarà mai, questa, se non una voluta da gente già ricchissima di diventare ancora più ricca, spremendo il limone fino all’ultimo?

Di andare a vedere Animali fantastici, quindi, non avevo alcuna intenzione. Ma, come spesso mi accade, avevo fatto i conti senza l’oste: che in questo caso ha le sembianze di una figlia di 9 anni, guarda caso proprio nel pieno di un’inarrestabile ondata di piena di passione potteriana.

Ubi maior, Gironi cessat, e quindi eccomi, un sabato pomeriggio come tanti, in un multisala del centro di Roma, a sorbire quasi mezz’ora di pubblicità prima dell’inizio di un film che non avevo una gran voglia di vedere ma che accettavo di buon grado nel nome di legami e sentimenti più importanti di qualsiasi pregiudizio. 

Andare al cinema, e andarci così, può essere come fare il flaneur benjaminiano; può essere un’esperienza sorprendente quando il bighellonare per le vie di una città sconosciuta, o che si conosce troppo bene; può essere il momento di un incontro inaspettato e rivelatore. 

E io, dopo pochi minuti, ho capito che Animali fantastici era il blockbuster hollywoodiano che aspettavo da tempo; il film nel quale alla fascinazione spettacolare garantita dalle più moderne tecnologie digitali si univa quella, intimamente legata al racconto e ai personaggi, degli albori del dispositivo cinematografico. 

Ho capito che dietro alla fama e alla gloria e alla prosopopea di J.K. Rowling si nasconde un grande talento narrativo.

Perché Animali fantastici è quello che non sono stati tantissimi cinecomic, Lo Hobbit di Peter Jackson, Warcraft o tanti altri film che miravano alla magia dello stupore: un film che non nasconde sotto gli effetti speciali l’identità di fiaba, che non finge di non guardare ai piccoli (anche se i protagonisti, in questo caso sono adulti), ma che ai grandi sa parlare con un linguaggio senza età, permettendogli di tornare bambini senza dimenticare l’età adulta.

Via Harry e i suoi occhialetti, via la spocchiosa Hermione e il goffo Ron, e spazio a Newt Scamander, mago-zoologo annodato e sociopatico, con un cappotto blu che ancora glielo invidio. Via Hogwarts, i suoi corridoi e i suoi intrighi, e benvenuti nella New York dei roaring twenties; via, ancora, la decadente eleganza rurale britannica e largo al pragmatismo geometrico e metropolitano del Nuovo Mondo. Un Nuovo Mondo all’interno del quale la Rowling si muove con grazia e familiarità, tessendo così la tela del mondo nuovo di Newt e dei suoi animali fantastici, destinato a tenerci compagnia per altri quattro film.

Via, soprattutto, gli attori bambini di Harry Potter, e largo a un cast adulto scelto con gli occhi puntati alle esigenze del racconto storia prima che a quelle del botteghino: perché se Eddie Redmayne – che non è certo un George Clooney o Brad Pitt – è comunque un premio Oscar, sorprendono positivamente le scelte di Katherine Waterston, Dan Fogler, Ezra Miller e Samantha Morton. E, soprattutto, di Alison Sudol, splendida e affascinante scoperta nei panni di Queenie, la bionda ammaliatrice ma modesta che fa perdere la testa alla nostra controfigura sullo schermo, Jacob Kowalski.

Via la spettacolarità caciarona, pesante e aggressiva di troppi blockbuster dei nostri giorni, quella autoreferenziale e del tutto fine a sé stessa, e tutto lo spazio del grande schermo a disposizione per quella che nasce, invece, dallo stupore e dalla fascinazione infantili, capaci di trovare nel piccolo dettaglio, nell’ombra sullo sfondo o nell’apparizione subitanea lo stesso magnetismo delle sequenze più grandiosamente spettacolari: perché Animali fantastici, come una delle creature che racconta, si adatta allo spazio che l’occhio dello spettatore sceglie di mettergli a disposizione, potendo occupare lo spazio di un’intera soffitta così come quello di una piccola teiera.

Solo nel finale, (il film di) David Yates si fa prendere la mano, si abbandona alle rocambolesche e distruttive sequenze d’azione di tanti prodotti analoghi, e – guarda caso – si concentra sul divismo dei Colin Farrell e dei Johnny Depp. Ma è anche perché, attento fino a quel momento a lavorare sulle misure grandi e piccole, a sedurre lo spettatore a colpi di meraviglie d’altri tempi, quando sa che lo spettatore è conquistato non si trattiene più e rompe il passo.

Poco male, perché alla fine – in un film che è uno dei migliori esempi delle potenzialità della macchina spettacolare hollywoodiana di questi anni, dove lo spettacolo è al servizio del racconto e non il contrario, dove la storia (e la Rowling) è capace di alternare con disinvoltura ed efficacia i registri della favola con quelli della commedia, quelli del fantastico con quelli dell’horror gotico, quelli del sentimento con quelli dell’azione – si tratta di peccati veniali.