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Silence: tre versioni di Kichijiro

C’è una scena, in Silence, che torna più volte, come un mantra, a suggellare la propria centralità, a dare una scansione interna ai turbamenti dell’anima dei protagonisti: questa scena racconta un’abiura. Mentre davanti agli occhi di padre Rodrigues e padre Garupe, missionari gesuiti in cerca di un prete scomparso forse perso e sciolto nell’estranea società giapponese, si susseguono le torture inflitte ai cristiani locali in nome di un Dio europeo, un derelitto uomo di Goto rifiuta di immolarsi in nome di un’ipotetica coerenza spirituale. I severi inquisitori mettevano i fedeli di fronte a una semplice scelta: rinnegare la fede forestiera calpestando un’immagine del Cristo o subirne a loro volta la passione. I più fervidi e resistenti ci mettevano anche giorni a morire, legati rozzamente a una croce e lasciati in balia di una marea impazzita, che li sferzava per poi ritrarsi, affogandoli per sfinimento (tra di loro compare Shinya Tsukamoto, uno che di lacerazioni corporee se ne intende). Insomma, i neofiti giapponesi sembravano avere appreso bene l’indottrinamento dei gesuiti: non si rinnega il nome di Dio neanche sotto la minaccia di un reiterato calvario, ché la sofferenza terrena sarà ripagata almeno dal Regno dei Cieli.

Ma Kichijiro è uomo diverso: trovato per caso in una bettola di Macao, straccione e reietto, desideroso e terrorizzato allo stesso tempo dall’idea di tornare a casa. Kichijiro è già dannato: ha rinnegato Dio salvandosi, unico tra tutti i suoi compaesani e familiari, dalla morte. Ha calpestato l’immagine della croce per salvare se stesso, gesto ignobile visto con disprezzo evidente dai due preti gesuiti che lo prendono malvolentieri come guida. Una volta che Garupe e Rodrigues cadono però nelle mani degli emissari dell’Inquisitore e affrontano la prigionia come atto di fede, come prova che Dio impone loro, l’impalcatura ideale/ideologica inizia a scricchiolare. Il primo affoga come un relitto durante un inutile tentativo di salvataggio; il secondo assiste inerte alla sofferenza che la propria fedeltà religiosa provoca sul suo gregge, su coloro che dovrebbe proteggere e che invece condanna a morte atroce. Kichijiro invece calpesta immagini sacre a comando, reiterando il gesto in maniera quasi meccanica, sempre più impersonale, perché quello è solo un movimento terreno e il rifiuto di piegarsi ad esso può causare la morte di altri uomini. E quella sì che è un’oscenità indicibile, un affronto a Dio e al suo popolo, uno sputo indicibile in faccia al sacro.

Kichijiro è un rinnegatore seriale che obbedisce a un istinto di sopravvivenza, ma non solo. Il suo dolente fervore rovesciato mi ha fatto pensare alle teorie del teologo immaginario Nils Runeberg, protagonista delle Tre versioni di Giuda di Jorge Luis Borges, ultimo racconto di Finzioni. Nella sua ossessione di una ricerca di perfezione nella volontà divina, Runeberg arriva a inserire in un disegno determinista il suo Giuda: «Supporre un errore nella Scrittura è intollerabile; non meno intollerabile ammettere un fatto casuale nel più prezioso avvenimento della storia del mondo. Ergo il tradimento di Giuda non fu casuale; fu cosa prestabilita, e che ebbe il suo luogo misterioso nell’economia della redenzione. Incarnandosi il Verbo passò dall’ubiquità allo spazio, dall’eternità alla storia, dalla felicità senza limiti alla mutazione e alla morte; per rispondere a tanto sacrificio, era necessario che un uomo, in rappresentanza di tutti gli uomini, facesse un sacrificio condegno. Giuda Iscariota fu quest’uomo. Giuda, unico tra gli apostoli, intuì la segreta divinità e il terribile proposito di Gesù. Il Verbo s’era abbassato alla condizione di mortale; Giuda, discepolo del Verbo, poteva abbassarsi alla condizione di delatore (l’infamia peggiore tra tutte le infamie) e d’ospite del fuoco che non s’estingue».

Quindi Kichijiro è l’uomo che si sottopone in maniera più completa al volere di Dio, non traditore ma strumento, vero specchio in cui dovrebbero – ma non riescono – a guardare i due missionari. È il volto più sincero dell’umanità, di chi accetta il proprio degrado morale o, meglio, come nella successiva “versione” di Runeberg, il simbolo di un «ascetismo iperbolico e addirittura illimitato. (...) Premeditò con lucidità terribile le sue colpe. L’adulterio partecipa della tenerezza e dell’abnegazione; l’omicidio, del coraggio; le profanazioni e la bestemmia, d’un certo fulgore satanico. Giuda scelse quelle colpe cui non visita alcuna virtù: l’abuso di fiducia (Giovanni XII 6) e la delazione. Agì con gigantesca umiltà; si stimò indegno d’essere buono». In Kichijiro si intuisce quindi il massimo timore di Dio, il rispetto assoluto, il non volersi (o potersi) nemmeno avvicinare al mistero del divino. Mentre altri uomini accettano il martirio sulla croce, a immagine e somiglianza di Cristo, lui rinnega a ripetizione, tradisce, immedesimandosi con Giuda, e rappresentando così il contraltare perfetto al misticismo autoreferenziale di padre Rodrigues. L’eretico fiammeggiante del racconto borgesiano giunge alla fine, prima di morire solo e incompreso, a formulare una teoria che, nel suo essere ostentatamente blasfema, risulta provocatoriamente illuminante: «Dio, argomenta Runeberg, s’abbassò alla condizione di uomo per la redenzione del genere umano; ci è permesso di pensare che il suo sacrificio fu perfetto, non invalidato o attenuato da omissioni. Limitare ciò che soffrì all’agonia d’un pomeriggio sulla croce, è bestemmia. Affermare che fu un uomo e che fu incapace di peccato, implica contraddizione. (…) Dio interamente si fece uomo, ma uomo fino all’infamia, uomo fino alla dannazione e all’abisso. Per salvarci, avrebbe potuto scegliere uno qualunque dei destini che tramano la perplessa rete della storia, avrebbe potuto essere Alessandro o Pitagora o Rurik o Gesù; scelse un destino infimo: fu Giuda».

È il cerchio che si chiude: è Kichijiro che Rodrigues dovrebbe guardare per trovare Dio, non i dannati della terra pronti a morire per una Voce che non parla e che da lui è rappresentata in terra, non il suo padre spirituale che solo nella rinuncia esteriore ai doveri e ai privilegi della fede trova un equilibrio che non gravi sul popolo, non al suo compagno di viaggio inflessibile e quindi destinato a una fine inutile e egotista. E soprattutto non dovrebbe avere la presunzione di scorgere la faccia di Cristo sovrapposta alla sua in un riflesso acquatico, come fosse un paganissimo Narciso. Scorsese sembra volerci ricordare che è nella miseria, nell’abiura, nel salvare pervicacemente la propria e l’altrui vita che si nasconde l’essenza profonda del divino. Negli stracci e nel letame, nella terra spesso guardata dai quasi tutti i protagonisti e non nel muto cielo verso cui le preghiere sembrano salire invano. Scorsese ce lo ribadisce ogni volta che mette in scena il dramma interiore di Rodrigues, preso dalle proprie incertezze che diventano, per superbia, centro del mondo: basterebbe invece calpestare un’icona materiale, basterebbe farsi infamia, prendersi sulle spalle l’ira del Signore, come il profeta Giona, e saper convivere con il ruolo di peccatore tra i peccatori. Come Il cattivo tenente di Ferrara, come il protagonista di Al di là della vita, forse il film di Scorsese che esprime la sofferta religiosità più vicina, ancor più dell’Ultima tentazione, a quella di Silence.

Scorsese, in questo film dalla maestosa semplicità quasi bressoniana, doloroso e impervio come lo scalare di una montagna, sacro e mondano, si mette a testa in giù, affonda i piedi nel fango, calpesta cristi e sputa a madonne perché forse solo così si può guadagnare una piccola croce da portare nell’aldilà, un simulacro che faccia sperare nella nostra salvezza, religiosa o laica che sia.