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* Estratto di un testo apparso sul volume monografico dedicato a Liv Ullmann, pubblicato in occasione della 36° edizione di Bergamo Film Meeting. Il volume è curato da Angelo Signorelli.

Ogni testo su Liv Ullman è inevitabilmente anche un testo su Ingmar Bergman. Il contrario è forse meno scontato: ogni testo su Ingmar Bergman è anche un testo su Liv Ullman, l’interprete prediletta, la protagonista di dieci film, la musa, la compagna. Faccia a faccia l’uno con l’altra, come suggerisce il titolo originale, Ansikte mot ansikte, di L’immagine allo specchio (1976). Lei, l’attrice, in campo; lui, il regista, dalla parte opposta, nel controcampo ideale dove risiedono la macchina da presa e il punto di vista del cinema.

La modernità di Bergman nasce dalla continua evocazione di quel controcampo impossibile, a partire da primi piani di volti che nelle scene di dialogo hanno una controparte presente, ma molto spesso non visibile. Sono questi interlocutori fantasma a interrogare i volti, a lasciare che il fuoricampo si disperda narrativamente nel nulla. Sono voci che domandano, indagano, a volte insinuano, altre accusano; danno corpo al desiderio del cinema di scavare nell’anima di un personaggio o forse, più ancora, all’impotenza di uno sguardo che non cattura fino in fondo l’emozione che l’interprete è chiamato a rappresentare.

Di chi è quella voce, se non di Bergman, del regista che dà forma concreta, auditiva quando non visiva, al dubbio, alla paura, all’incertezza del proprio occhio? Ribaltando la questione, però, ci si chiede anche: se il volto in primo piano di un interprete – e in particolare, come vedremo, il volto in primo piano di Liv Ullmann – sfugge all’intera raffigurazione e all’emozione richiesta, chi guardano realmente i suoi occhi quando sono rivolti al fuoricampo? C’è qualcuno o qualcosa in più oltre il personaggio? E nel caso di Liv Ullmann, chi e cosa interrogano i suoi occhi impauriti eppure avidi? Cosa nascondo al cinema?

La relazione professionale fra l’attrice e il regista comincia nel 1966 con Persona (quella sentimentale un po’ prima, e sarebbe durata molto meno). Il film, come ha scritto Thomas Elsaesser in The Persistence of “Persona”, è oggi riconoscibile grazie a due inquadrature diventate emblematiche: quella iniziale di un ragazzino che prova a toccare su un grande schermo il volto sfocato di una donna e quella con le due protagoniste, Elisabet, un’attrice affetta da blocco psicologico (Liv Ullmann), e Alma, la sua infermiera (Bibi Andersson), abbracciate e rivolte a uno ipotetico specchio (e di conseguenza alla macchina da presa e allo spettatore). «Queste immagini», scrive Elsaesser, «racchiudono anche un’idea di cinema, o meglio due distinte ma complementari metafore di ciò che il cinema è: un portale, una finestra, un passaggio da percorrere o (quasi) toccare, e uno specchio, un riflesso, un prisma che restituisce solo ciò che vi è proiettato».

Lo stesso cinema di Bergman è facilmente riconducibile ai due concetti di finestra e specchio. Se la presenza di Liv Ullmann, costante fino alla fine degli anni Settanta, ne ha definito la natura e messo in crisi le immagini, è perché il volto dell’attrice – amato, inseguito, ripreso, idealmente anche aggredito – ha sempre abitato entrambe le dimensioni, si è specchiato nel cinema e gli è sfuggito, irrappresentabile e sfocato nell’inquadratura. In Liv Ullmann – l’interprete, l’amante, la nemica, la cavia – Bergman vi ha visto il riflesso di sé, la proiezione dei suoi fantasmi (a cominciare dal ricordo dell’armadio dove veniva rinchiuso per punizione, che in L’immagine dello specchio diventa l’ossessione della protagonista), e al tempo stesso la raffigurazione dell’altro irraggiungibile.

In Persona la prima apparizione di Liv Ullmann, attraverso la descrizione in voce over di una dottoressa, è un primo piano ravvicinato del suo volto (Fig. 3), nel momento in cui Elisabet perde l’uso della parola: la donna è in scena, indossa una parrucca, è truccata, alle sue spalle grossi fari la illuminano, e improvvisamente arriva il trauma; gli occhi esprimono sgomento, la voce prova a uscire ma fallisce; il movimento verso il proscenio la avvicina ancora di più alla macchina da presa. E a quel punto, nel primissimo piano, un mezzo sorriso sarcastico e inatteso, quasi una sfida dell’attrice a sé stessa e a chi la sta guardando (il pubblico a teatro, il regista, lo spettatore del film). Senza ragione, senza spiegazione.

È questo sorriso inaccettabile che rende Liv Ullmann unica e da questo momento trasformerà la relazione con Bergman in un gioco talvolta anche sadico. Il regista chiede all’attrice di sottrarsi a ogni definizione della voce e dell’occhio, di sfuggire alla ragione; e lei risponde con una smorfia che mette in dubbio la possibilità stessa del cinema di raccontare pienamente il mistero dell’animo di cui va in cerca.