Un film sul tempo senza tempo

Boyhood

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In Grand Budapest Hotel il tempo è una piramide capovolta, un viaggio a testa in giù in cui i decenni poggiano l'uno sull'altro; la cornice è ideale, ma la materia è concreta, tangibile. In Boyhood di Linklater, invece, il tempo è una linea retta, una traccia che nel suo solco raccoglie ogni cosa, così ampia e sconfinata da sembrare astratta.

Boyhood è letteralmente un film sul tempo: sul tempo come quantità, sul tempo che ci sta davanti, sul tempo che si ha a disposizione per fare e disfare le cose, per crescere e cambiare, sbagliare, correggere, sbagliare ancora e ricorreggere, in una catena infinita. È il racconto di un'educazione alla vita, ma per fortuna non è un romanzo di formazione; perché nulla succede, in Boyhood, a parte quello che succede nella vita.

Dodici anni ci sono voluti per realizzarlo. Dodici anni di vita di Mason, che vive a Austin con la mamma e la sorella e ogni tanto fa visita al padre, e di crescita fisica, o invecchiamento, degli attori coinvolti. Dodici anni di riprese frammentate, di cinema che cresceva mentre la vita proseguiva, allo stesso ritmo, con la stessa cadenza inesorabile. Mason da bambino diventa adolescente e poi ragazzo, dal giardino di casa arriva al college, e nel suo percorso in linea retta ci sono gli amici e i compagni di ogni stagione, ci sono la scuola e le vacanze, i nuovi mariti della madre, la nuova moglie del padre, gli amori della sorella; ci sono le cose che cambiano e le cose che restano uguali per sempre, le discussioni in casa, i lavori estivi, le fidanzate, il diploma, l'abbandono della famiglia. Non ci sono né drammi né tragedie, nemmeno troppi conflitti; solo cose che rendono la vita terribilmente normale e impossibile da raccontare nella sua fluidità ininterrotta.

E infatti Linklater non racconta; srotola una matassa e la ricompone con il montaggio. In Boyhood è il tempo a raccontare: con i cambiamenti nel corpo e nella voce degli attori, con il passare degli anni scandito dalle canzoni (da Yellow a Get Lucky, passando per Flaming Lips, Wilco, Vampire Weekend, Phoenix, Arcade Fire, e niente è mai forzato, solo un accenno senza emozione o nostalgia), con il mutare degli interessi di una persona che cresce e fa solo quello, cresce e vive. A non mutare è però lo stile di Linklater, che è classico, sobrio, quasi mai sbavato verso l’estetica indie, e nella sua incredibile uniformità fa di Boyhood un film sul tempo senza tempo, uguale nel 2014 come nel 2002, con l'ellissi che paradossalmente dà uniformità a un tempo spezzato ma percepito in quanto eterno presente.

Il protagonista di Boyhood non si volge mai all’indietro, non ne avrebbe motivo, ha un sacco di tempo davanti a sé per diventare quello che vuole diventare, e magari altro ancora. Mason ha sempre una strada davanti a sé, può correre il rischio di farsi sfuggire un momento ideale perché sa che altri ne arriveranno. Perde qualcosa, ma continua a vivere. Ed è questa continuità, questo sentimento impressionista del tempo che fa di Boyhood un capolavoro.

Il presente è assoluto, ma l'attimo non è fuggente - dura dodici anni, più probabilmente una vita intera.