Concorso

Las herederas di Marcelo Martinessi

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I tre cortometraggi che hanno preceduto questo esordio del paraguaiano Marcelo Martinessi raccontavano i margini della società del suo paese, o comunque le classi popolari, in cui le persone parlano il guaranì o le sue ibridazioni creole con il castigliano; un paese, il Paraguay, di cui, a ben guardare, in Europa si sa poco o niente, se non magari che nel 1947 fu scosso da una guerra civile (che fa da sfondo al primo di quei corti, Karai Norte, 2009) e che l’instabilità politica in seguito a quella guerra portò nel 1954 a una delle dittature più odiose del Sud America, quella di Alfredo Stroessner, durata fino al 1989, con conseguenze che si riverberano tutt’oggi sulla nazione e sulle sue difficoltà economiche.

Con Las herederas, Martinessi si porta invece al centro di quella società, ad Asunción, in un contesto borghese che per inclinazione tiene le porte selettivamente chiuse alla realtà di cui sopra, pur essendone circondata e sfruttandola alla bisogna. Al centro di questo microcosmo, una casa in disarmo, la dimora di una coppia di signore mature, Chiquita (Margarita Irun) e Chela (Ana Brun), le quali, oltre che eredi, come dice il titolo, di un benessere e di un patrimonio che non hanno saputo gestire, sembrano essere le mancate testimoni dei drammi del loro paese. In questa sottrazione al tempo corrente, e agli accidenti della società, si colloca l’accettazione senza questioni o discriminazioni della loro relazione d’amore. Quando Chiquita, che delle due è la più estroversa, è incriminata per debiti, e si deve presentare a scontare la pena in un carcere dove i diaframmi sociali vengono meno, l’equilibrio sedato di Chela, abituata a stare riparata in casa, a sbirciare la vita dal bordo della pagina, sembra subire uno smottamento che si traduce in un lento risveglio. Quando un’amica le chiede un passaggio in macchina per andare a giocare a bridge e questa cosa diventa progressivamente un impegno fisso e retribuito, esteso ad altre signore del club, Chela sembra addirittura scoprire che, per sopravvivere, è anche possibile lavorare, e non è necessario adottare soluzioni radicali come alienare i mobili e i servizi neoclassici della trisnonna, o mettere in vendita la stessa auto. In questo ruolo improvvisato di taxista per signore Chela incrocia la figlia di una di loro, la bella Angy, (Ana Ivanova), ed è presto palese, forse fin troppo, un’altra epifania: di fronte alla seducente energia della giovane, che si rivela più libertina di quel che ci si potesse aspettare, la donna più matura si confronta col risveglio inatteso del desiderio. Tuttavia, sebbene il campo, tutto sommato, sia libero, e la fedeltà di Chiquita in carcere sia sub judice, questo anelito non si concretizza in atto, nemmeno quando si presenta esplicitamente l’occasione.

Marianessi ha il merito di affrontare il rapporto tra le due compagne e la crisi dello stesso, sullo sfondo di un milieu quasi esclusivamente femminile, con qualche bella notazione ironica, evitando i luoghi comuni o gli sconfinamenti grotteschi, o crudeli (benché la situazione iniziale possa ricordare plot aldrichiani, come Piano, piano dolce Carlotta o L’assassinio di Sister George). Questo non gli evita una certa prevedibilità quasi meccanica nelle soluzioni di sceneggiatura anche se resta difficile, in fondo, rimproverargli il finale “spalancato”, che ci ricorda che se il desiderio in purezza non può avere spazio in campo, ma piuttosto una collocazione sempre rimandata a un altrove, la soluzione non può che essere l’uscita dalla scena stessa: la liberazione da un’eredità che è catena, se non zavorra, anche per chi vive nel privilegio.