Concorso

Rodin di Jacques Doillon

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«Vincent Lindon è sceso a Cannes per difendere Rodin» recita la didascalia di una foto pubblicata sull'inserto settimanale di Le Monde: Rodin, nel centenario dalla sua morte, andava forse difeso dal lavoro di Jacques Doillon, che, nel tentativo di piegare il biopic verso i territori a lui cari dell'amour fou, perde per strada bambino e acqua sporca. Non uso l'immagine per caso: per l'autore di La femme qui pleure o Amoureuse, la tranche de vie presa in esame è tutta una vicenda di gestazioni, paternità negate e gravidanze interrotte, il prevalere di una vita sentimentale complicata sulle posizioni teoriche ed estetiche, il prevaricare delle chiacchiere sull'opera.

È circa il 1880, nel suo studio, l'artista che ha reinventato la scultura moderna sta lavorando alla Porte de l'Enfer, un'opera palinsesto che, come molte sue, fu lasciata incompiuta alla morte, avvenuta appunto nel 1917. Intorno al maestro, oltre a una serie di allievi maschi, gravitano tante modelle (si lascia intendere, come la leggenda dell'artista vuole, che siano tutte state sue amanti); ma, soprattutto, in quello studio ronza una Camille Claudel ostentante sicumera, non ancora alienata come la fissava Bruno Dumont nel 2013 ingabbiandola nel corpo di Juliette Binoche, non brillante e femminista come l'aveva fotografata Bruno Nuytten nel 1988, quando Isabelle Adjani era ancora un prodigio, e Depardieu un Rodin burbero ma premuroso. Camille qui è Izïa Higelin, attrice di scarso rilievo e rara inespressività, e delle qualità artistiche del personaggio, come dei suoi problemi mentali, cercheremo invano tracce nel film. Ma poi c'è l'altra compagna di Rodin, Rose Beuret, couturière, con la quale lo scultore passò gran parte della propria vita adulta, senza mai sposarla, robusta e tetragona, che ha i tratti duri e gli occhi infossati di Séverine Caneele, e che curiosamente, a ogni apparizione, sembra l'incarnazione del celebre ritratto di M.me Paul Cézanne, par lui-même.

Tra l'altro, durante un'uscita in visita a Monet, c'è anche lo stesso Paul, che spara un paio di aforismi su forma e struttura dell'opera d'arte con una lena che nemmeno un idiot savant. E poi, proprio in questa visita, alle pareti, un buon numero di dipinti più o meno riconoscibili, stampe su tela cerata di quelle che si vendono ai ristoranti, coi listelli bianchi al posto della cornice. Se manca rispetto per le opere degli altri artisti, a loro volta poco più che macchiette, non ci si deve aspettare che ce ne sia per quelle dello scultore di cui al titolo: per quelle si rimanda alla grande monografica parigina fino al 31 luglio prossimo venturo, perché la fotografia di Christophe Beaucarne, in campi sempre piuttosto lunghi, fatica a mostrarne il derma e la sostanza, né esercita più di tanto quel vantaggio che la scultura, nella sua tridimensionalità, offre all'obiettivo della macchina da presa. Men che meno l'occhio di Doillon sembra interessarsi davvero alla sua tecnica "in aggiungere", se non qualche caccola di argilla sulla testa per il monumento a Balzac.

Un ritratto che diventa presto il polo dell'interesse del regista, per la lunga gestazione e per l'idea di comporre il busto e il torso dell'autore della Comédie Humaine sul corpo di una donna gravida (una modalità di assemblaggio, se non "montaggio" che ritroveremo poi in tanti artisti del Novecento), per ricordare le centinaia di personaggi dalla di lui fantasia partoriti. Un'opera-fulcro che vorrebbe, in fondo, essere riflesso, se non mise en abîme, dello studio stesso dello scultore, un ventre ombroso, pieno di opere in lavorazione, fuori dal quale raramente lo spettatore viene accompagnato, magari per uscire a contemplare, accarezzare, il vigore della Natura in un albero che ha, nella corteccia, un'eloquente fenditura verticale.

Le opere dentro a questo studio/ventre sono, in gran parte incompiute: a Doillon, in fondo, sembra interessare solo l'equazione tra sganghero sentimentale e oeuvre inachevée – il cui valore è urlato a un certo punto, menzionando i Prigioni e le altre incompiute di Michelangelo, e lì si aprirebbe un capitolo, nemmeno sfiorato, sul ruolo delle riproduzioni fotografiche nel lavoro dell'artista, e magari anche la reazione di questo di fronte a fotografia e cinema, e non solo il dialogo a distanza con Matisse –, un'equazione che si azzera stucchevolmente, come del resto quella tra poïesis e generazione, con un epilogo girato ai giorni nostri, in un open air museum tra le montagne giapponesi, nel quale un piccolo visitatore si avvicina a una fusione del Balzac e gli tocca il ventre in un punto in cui il bronzo porta le tracce, visibili, delle dita dell'artista. Rodin – dettaglio trascurato dal regista e da Lindon – era miope, ma di sicuro aveva visto lontano: il problema di Doillon è tutto di presbiopia.