Torino 38

Botox di Kaveh Mazaheri

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Il lungometraggio d'esordio dell'iraniano Kaveh Mazaheri non vuole principalmente raccontarci qualcosa: né la storia di un omicidio e del suo più o meno riuscito occultamento, né quella dell'avvio di un'impresa illegale di coltivazione di funghi allucinogeni, né tantomeno quella di un percorso di emancipazione femminile, iniziato sia pure per caso, in un sistema sociale fondato ancora saldamente sulla supremazia dell'uomo e la sottomissione, ancorché talvolta dissimulata, della donna. Per questo motivo non ha molto senso fargli le pulci sulle fragilità di sceneggiatura che sembrano portarlo in una direzione poco definita, mentre si avvia a una conclusione che conclusione non è.

Botox ci vuole soprattutto mostrare la deriva della situazione famigliare su cui concentra l'attenzione, nella quale si rispecchia la condizione di impasse collettiva di una società intera, ben al di là del nodo politico che pure resta sottinteso sullo sfondo. Due sorelle: la maggiore, Akram, con problemi di ritardo mentale, è l'elemento deflagrante incontrollabile; la minore, Azar, apparentemente integrata e intraprendente, lavora in un centro di chirurgia estetica; il fratello Emad, inconcludente sognatore ma anche prevaricatore nei confronti delle sorelle, protetto dalla posizione dominante fornitagli dal suo essere maschio.

Se la deriva prende il via quasi casualmente dall'uccisione di Emad provocata da una reazione di Akram, in realtà la sua origine è da ricercare nel conflitto preparato dall'ambiente – insieme familiare, culturale, sociale – descritto da Mazaheri con realismo essenziale ed efficace nella definizione degli ambienti e nel contrasto tra la sostanza della povertà e dell'emarginazione contrapposta all'esibizione di una superficiale, posticcia immagine di modernità di cui è emblema, appunto, il botox utilizzato nel luogo in cui Azar lavora.

La rottura del già fragile equilibrio, provocata dalla morte di Emad, dà il via a una serie di azioni, da parte di Azar che si trascina dietro in qualche modo la sorella, in bilico sempre più incerto fra una razionale eliminazione delle tracce dell'accaduto e una sorta di trance che la porta a muoversi instancabilmente e istintivamente nella speranza che tutto tenga. L'allestimento della coltivazione di funghi allucinogeni, portata avanti con l'apparente consenso di Emad da un ingegnere alla ricerca di soldi facili e che intanto sembra procedere, appare come il correlativo oggettivo della condizione di Azar, che a poco a poco si addentra in un labirinto sempre meno governabile.

Il realismo necessario a delineare il quadro iniziale lascia quindi via via spazio all'irruzione del grottesco e dell'onirico; il dramma a sfondo sociale si trasforma strada facendo in un noir stralunato e spaesante proprio perché privato dei riferimenti di geografia cinematografica cui tradizionalmente siamo portati ad associarlo. Akram è in un tale contesto come una mina vagante, dal comportamento imprevedibile, ansiogeno ma contemporaneamente generatore di una convulsiva comicità, la medesima di cui è portatore il personaggio di Willy Coyote che vediamo sullo schermo televisivo in apertura di film.

Sono stati chiamati in causa i Coen, il loro approccio ironico al tema della violenza e il loro Fargo, complice l'ambientazione invernale della prima parte. Lo strato ghiacciato sotto il quale Azar cerca di occultare il corpo del fratello costituisce però l'elemento che permette anche lo scarto rispetto a quel film: sciogliendosi nel passaggio di stagione, rivelerà uno specchio d'acqua tutt'altro che profondo e la bianca superficie opaca e rigida lascerà spazio alla trasparenza di un flusso da cui il cadavere è verosimilmente stato trascinato via, ma troppo in superficie per poter dare garanzie circa la sua scomparsa. E questo ulteriore tratto di instabilità contribuirà ad annunciare il rimescolarsi dei piani percettivi che caratterizzerà tutta la sequenza finale.

Ciò che ci rende paradossalmente vicino l'approccio di Mazaheri al materiale del suo film sta allora forse proprio nella sospensione di risposte “risolutive” alle domande che ne emergono con forza, e nella scelta di trovare la giusta distanza per cominciare intanto ad affondarvi lo sguardo senza timore per quello che ci sarà da vedere.