Steven Knight

Realismo in vitro

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All’ultimo festival di Venezia, trovare qualcuno che parlasse male di Locke era difficile quanto scovare un posto dove mangiare in modo accettabile a prezzi umani. I giudizi erano quasi tutti tra il positivo e l’entusiastico.

A chi scrive è invece parso un film furbo più che intelligente, abile più che originale. Un film che non riesce ad emanciparsi dalla sua fondamentale condizione di gimmick movie, di film cioè che si esaurisce nella artificiosità della trovata/sfida di partenza (un film con un solo protagonista, isolato nell’abitacolo di un'auto, collegato al resto del mondo col telefono), non diversamente – in fondo – dal contractor americano chiuso in una bara sotto terra (Buried – Sepolto) o dal trekker col braccio incastrato tra le rocce (127 ore).

In realtà, il film di Knight vorrebbe non essere solo questo. Per certi versi è accostabile agli interessanti film del cileno Matias Bize (En la cama, La vida de los peces) oppure al mediocre Last night di Massy Tadjedin. La condensazione in un tempo/luogo ristretto di una situazione che pone i protagonisti di fronte al tema della costruzione di legami affettivi: la ricerca della stabilità di rapporti duraturi e allo stesso tempo la paura dei vincoli, il desiderio della libertà e l’angoscia della solitudine, il senso della responsabilità e il fastidio per gli obblighi imposti.

Potremmo dire che in tutti questi film il tema è esattamente lo stesso dei film di Muccino senza le sbrodolate melodrammatiche e il macchiettismo di Muccino, ma puntando (attraverso la condensazione spazio/temporale) a una essenzialità di racconto e alla immediata riconoscibilità esistenziale di quello che viene mostrato. La situazione, a un tempo realistica e artificiosa, in cui si trovano i personaggi di Locke e dei film di Bize, riproduce come in vitro, e quindi in forma amplificata, una situazione e un problema esistenziale con cui qualsiasi uomo/donna di trenta-quarant’anni si trova di fronte quotidianamente.

Potremmo così chiamare questo approccio narrativo – immediata riconoscibilità (la situazione non è sottoposta a quel processo di “stilizzazione” ed esasperazione della realtà che è propria di un trattamento teatrale della materia, i toni rimangono piani, quotidiani) e sottolineatura di un dilemma (cosa farà il protagonista? Cosa farei io al suo posto? Cosa ho fatto io in situazioni, almeno alla lontana, simili?) – “realismo in vitro.

E se ci interrogassimo sulle sue origini, probabilmente lo potremmo considerare in qualche modo figlio dell’epoca dell’osservazione ravvicinata dei vari “Grandi fratelli” (i cui protagonisti sono spesso posti di fronte a dilemmi decisivi).

Se il film è questo, cosa c’è che non va? Il principale limite di Locke sta nella costruzione “eroica” del suo protagonista, nell’insistenza con cui questo chiama in causa Grandi Principi e Grandi Valori. Mentre i film di Bize costruivano personaggi dotati di una interna complessità e ci mostravano i loro dilemmi e le loro scelte da diversi lati (ossia ci mostravano anche il punto di vista degli altri), Locke ci mostra una sola prospettiva, che è quella di un vero e proprio eroe della responsabilità famigliare.

Il film sembra adottare una posizione direi quasi “ideologica” facendo di questo personaggio una sorta di “eroe” (vedi il modo in cui sono calcati i suoi “dialoghi” con la figura del padre). Un eroe che, in tempi di precarietà affettiva, di legami “liquidi”, cerca di costruire qualcosa di solido (e affronta con coraggio e con correttezza gli errori commessi), facendo degli altri personaggi comparse prive di un punto di vista (chi è la moglie? Un’isterica incapace di comprendere quella che, suvvia, è solo una distrazione momentanea del Nostro Eroe della Retta Via).

Molte delle recensioni che ho letto su questo film considerano in effetti il nostro capocantiere come un eroe del Senso del Dovere (Natalia Aspesi su “la Repubblica”, 28 aprile, per dirne una). Se decidiamo di leggere il film in questo senso ci sono due problemi. Il primo è che non si capisce bene cosa voglia fare l’eroe. Non è chiaro, cioè, cosa gli suggerisca questo suo senso del dovere.

Gli basterà tenere la mano alla donna durante il parto per tornare poi dalla famiglia? Una via d’uscita un po’ facile, mi pare. Vorrà – grazie allo stipendio sicuramente buono – mantenere entrambe le famiglie? Di solito, questo genere di soluzioni non sono considerate esempio di specchiato senso del dovere (certo, non dalla Aspesi). Abbandonare la famiglia “vecchia” per la “nuova”? E per quale motivo questa scelta – se è questo ciò che ha in mente – dovrebbe, di per sé, essere considerata esempio di senso del dovere?

Il fatto è che se il film fosse una riflessione etica non potrebbe che confrontarsi col fatto che, in una situazione del genere, dove qualsiasi scelta non può che produrre sofferenze, una posizione etica non può nascere da un astratto senso del dovere. Può nascere solo a partire dall’attenzione alle ragioni e ai bisogni degli altri, che saranno tra loro inevitabilmente divergenti e contrapposti. Può quindi nascere solo dall’umiltà di riconoscere l’errore commesso e non dall’orgoglio di sentirsi eroi del senso del dovere. Se il film e lo spettatore si identificano con lui, e con le sue certezze, la riflessione etica mi lascia molto perplesso.

Può darsi che il finale – il protagonista non arriva da nessuna parte – voglia proprio dire che il protagonista, col suo orgoglio e le sue certezze, era sulla strada sbagliata. Ma se questo è l’intendimento del film si tratterebbe di un ribaltamento completo di prospettiva rispetto a tutto quello che si è visto in precedenza (e, di certo, sarebbe in netto contrasto rispetto alla lettura di quei critici che hanno percepito il protagonista come eroe del senso del dovere).

Il secondo problema è che il film può funzionare solo se ci si dimentica del punto di partenza pesantemente inverosimile, ossia del fatto che un personaggio così metodico e coscienzioso abbia aspettato l’ultimo minuto per risolvere tutto quanto. Senza questo presupposto il film non starebbe in piedi. Lo possiamo accettare (e, accettandolo, si ricava un film ben fatto e, tutto sommato, godibile). Ma si tratta – e qui ritorniamo al punto di partenza – di un artificioso gimmick e nulla più.

Sulla performance del protagonista e sull’abilità della regia nel rendere vario e saporito lo svolgimento non si discute, ma, per l’appunto, una e l’altra hanno fondamentalmente il compito di distrarre lo spettatore dalla debolezza di fondo dell’impianto.

Locke
Gran Bretagna, Usa, 2013, 85'
Titolo originale:
id.
Regia:
Steven Knight
Sceneggiatura:
Steven Knight
Fotografia:
Haris Zambarloukos
Montaggio:
Justine Wright
Musica:
Dickon Hinchliffe
Cast:
Alice Lowe, Silas Carson, Lee Ross, Andrew Scott, Ben Daniels, Tom Holland, Bill Milner, Danny Webb, Kirsty Dillon, Ruth Wilson, Olivia Colman, Tom Hardy
Produzione:
IM Global, Shoebox Films
Distribuzione:
Good Films

Ivan Locke ha lavorato sodo per costruirsi la sua vita. Stanotte quella vita gli crollerà addosso. Alla vigilia della sfida più grande di tutta la sua carriera, Ivan riceve una telefonata che scatenerà una serie di eventi dagli effetti catastrofici per la sua famiglia, la sua carriera e la sua anima.

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