Cascine e Villaggi di Ermanno Olmi

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A conclusione di “Prospettiva Olmi”, l'articolato omaggio dedicato al Maestro bergamasco nell'ambito di Bergamo Brescia Capitale della Cultura 2023, FIC ha istituito un premio di 300 euro da assegnare al vincitore della Menzione speciale di “Premio Ermanno Olmi”, promosso dal Comune di Bergamo con il supporto organizzativo di Bergamo Film Meeting Onlus. Questo contributo intende essere un piccolo viatico per l’autore del cortometraggio che, in linea con la sensibilità olmiana, abbia saputo cogliere e declinare il tema scelto quest’anno dall’amministrazione comunale: “L’essere umano e il tempo”, un tema che Olmi ha esplorato sotto diversi aspetti in tutta la sua produzione cinematografica. La serata di premiazione si terrà domani, martedì 5 dicembre, presso l’Auditorium di Piazza della Libertà. Tra i membri della Giuria, Lorenzo Rossi (redattore di Cineforum Rivista). Per rinfrescare la memoria su temi squisitamente olmiani, riproponiamo le recensioni a L'albero degi zoccoli e Il villaggio di cartone, scritte rispettivamente da Ermanno Comuzio su «Cineforum» n. 179, settembre 1978, e da Tullio Masoni sul n. 508, ottobre 2011.

 

«Cineforum» n. 179, settembre 1978

Scheda L'albero degli zoccoli

Minek è Olmi, noi siamo Minek

 

Ermanno Comuzio

 

Lasciando stare i bizantinismi dei riferimenti colti (Virgilio e Manzoni, De Marchi e Pratesi, Segantini e Millet: ma io personalmente tirerei semmai in ballo Tolstoj o, più modestamente, Fogazzaro, Tomizza e Camon), consideriamo L'albero degli zoccoli per quel che è, un bel racconto col sapore della genuinità, semplice e vivace, su un mondo che non è più, quel mondo contadino che il cinema italiano così rare volte ha visitato (praticamente mai, se si eccettuano il citato Novecento e Gli ultimi, di Vito Pandolfi e Davide Maria Turoldo). Un racconto quasi sempre felice, pieno di cose, e non soltanto di cose piacevoli,·sbarazzerei il campo di un possibile equivoco: questo mondo di semplici non è visto da un semplice. In L'albero degli zoccoli non c'è niente di naïf, anzi: è un film calibratissimo nella sua struttura, studiatissimo nei rapporti delle sue parti a incastro, molto elaborato nella “semplicità” dei dialoghi. Un'opera raffinata, piena di dettagli significanti, in un accumularsi di episodi che si compongono in un “corale” (in senso proprio, cioè musicale).

Basta vedere come il regista lega fra loro, con morbida souplesse, i vari momenti e i vari personaggi. Per esempio: il bambino che va a scuola, con la cinepresa che nel seguirlo si ferma sul carro col grano in partenza per il mulino, sul quale sta Pepino, il figlio maggiore della vedova Runk, e poi “incrocia” nonno Anselmo che va nel pollaio a raccogliere il letame delle galline. O la riunione nella stalla, di sera, con il Batistì che racconta le storie e il pretendente di Maddalena che arriva con gli amici («Gh'è ché i lomagocc» – son qui i lumaconi, commenta la Batistina), il suono delle zampogne che chiama tutti fuori, col naso all'aria perché il cielo promette neve, il ritorno a casa di Stefano, la sua sosta nel cortile del padrone, il bellissimo e un po' misterioso episodio del padrone che sogguarda dall'esterno il figlio che suona il piano (anche lui, uomo rozzo, è un escluso rispetto alla salottiera “civiltà” della moglie e del figlio), la prima neve che cade nella notte, gli animali che riposano, i contadini che dormono, il cane che uggiola e che sveglia nonno Anselmo il quale si alza per mettere il letame di gallina sulla terra, per tenerla calda sotto la neve. O la nascita dell'ultimo figlio del Batistì, ancora ritmata dal figlio maggiore che va a scuola, incrociato dalla bambina che va a chiamare il contadino nei campi, il quale arriva in cascina osservato dal Finard (sta controllando il marengo nascosto nello zoccolo del cavallo) e dal nostro occhio di testimoni, che passando davanti alla finestra della vedova Runk si sofferma a vedere nonno Anselmo il quale racconta storie ai nipoti.

Il tocco di accademismo c'è. Ma, a parte il sapiente uso della luce (un conto gli interni, un conto gli esterni) e il tono eccellente della fotografia, di cui è responsabile diretto lo stesso Olmi; a parte la vivacità descrittiva (tutta la sequenza del matrimonio e poi il lungo “corpus” del viaggio di nozze, dove il ritmo convulso dell'imbarco si placa nella distesa descrizione del viaggio per acqua, lunga pagina sostenuta efficacemente, qui, dal timbro raccolto del violoncello) a parte tutto questo, dicevo, quel che caratterizza il film l'ho trovato nel fatto che tutto sembra visto dalla parte dei bambini, ossia dei posteri.

Vedi il rapporto tenerissimo fra nonno Anselmo e la nipote che lo segue nelle diverse fasi dell'avventura dei pomodori; le favole che il nonno racconta ai piccoli; le figlie della lavandaia che fanno oggetto di gioco la fatica di trasportare i panni in carriola (con osservazioni finissime sulla psicologia del bambino povero: il figlioletto della vedova Runk è corso a chiamare il veterinario e, pur nel momento doloroso, non può nascondere la sua contentezza per aver fatto il tragitto in calesse); i bambini che ascoltano a bocca aperta le storie nella stalla, che si incantano alle meraviglie del Frikì, il merciaio ambulante, che guardano tutto, osservano in silenzio, fanno domande, si parlano all'orecchio, sono continuamente presenti. Li rappresenta tutti Minek, il bambino che va a scuola, tranquillo e modesto quanto gli altri sono allarmati per la “novità” («Ü s-cet de paisà che'l và a scola! I diserai cos'é?» – Il figlio di un contadino che va a scuola! Cosa dirà la gente?), legato al suo ruolo di “uomo nuovo” anche nei momenti drammatici. Dopo che la sua presenza di scolaro ha siglato la vita della cascina, lo vediamo significativamente fare il compito la sera stessa della cacciata della sua famiglia, e lo vediamo salire sul carro con la sua cartella di pezza. L'ultima presenza umana del film, prima della partecipazione silenziosa del “coro” e del lumino che si allontana nella notte, è lui, Minek. Sul carro, la madre guarda il neonato poi Minek, e quest'ultimo ricambia lo sguardo prima di osservare per un'ultima volta la cascina: è lui a farsi tramite fra il passato e il futuro, fra il mondo dei suoi genitori e quello che appartiene a lui e al fratello ultimo nato. Il racconto è come se fosse visto attraverso gli occhi di Minek. Ermanno Olmi si sente quel ragazzo, anche se anagraficamente potrebbe essergli nipote o pronipote.

Per quanta simpatia possiamo nutrire (chi di noi si sente a sua volta rampollo di questo Minek) per il mondo contadino del passato, il film non ci induce a coltivare la nostalgia. Nè, seguendo contestazioni ideologiche culminate negli attacchi ferocissimi di Camon e di Moravia a postulare un ritorno all'antico e a «sostenere una morale che non serva ad altro che a perpetuare lo stato di miseria e di sofferenza» descritta. Io credo che Olmi salvi semmai lo spirito con cui quella gente subiva quello che subiva, constatando che non sapeva fare altro, non per questo giustificando od esaltando quelle condizioni di vita.

Il film di Olmi è da leggere bene perchè è più sottile di quel che sembra, legato com'è all'ellissi e alle sfumature: è il solito discorso relativo alle sue fatiche, facili in apparenza, complesse nella sostanza. L'oggetto film, come il viaggio a Milano dei due sposi, è «lungo e pieno di pericoli» ma, come quelli si portano a casa il marmocchio, risolve il viaggio dello spettatore con una acquisizione concreta, una meditazione che sta a noi compiere correttamente sull'ieri e sull'oggi, sui padri e sui figli e soprattutto sull'ineluttabile trasformazione che purtroppo, fortunatamente (direbbero Leo e Perla), ha subito la civiltà contadina.

 

«Cineforum» n. 508, ottobre 2011

Scheda Il villaggio di cartone

Il bene prima della fede

 

Tullio Masoni

 

Un piccolo film, un film minore come potevano essere, ciascuno a suo modo, Durante l’estate o Lunga vita alla signora. Dopo le asprezze di Centochiodi, Olmi rinuncia una volta di più alla fiducia (dire ottimismo sarebbe troppo) che, per le giustificate promesse del Concilio Vaticano II e della crescita industriale, nutriva nel passato: «… io sono stato persino entusiasta di Marghera e del Petrolchimico di Priolo. Tra il 1953 e il ’54 ho realizzato un documentario dal titolo Venezia città moderna, che esprimeva questo mio slancio per l’industria. […] Fino all’Albero degli zoccoli: con quel film credevo di celebrare la conclusione di un’epoca. Oggi so che è esattamente il film dal quale ricominciare: dalla terra, da quelle case, gli uomini, i campi. È l’unica storia che continuerà».

Il villaggio di cartone si svolge in una chiesa-rifugio, e un rifugio, ma dalle intemperie notturne ad alta quota, era anche la cappella di Il tempo si è fermato. Le attese di allora (un’industria promossa dalle dighe di Stato, il superamento dell’arretratezza contadina incarnata dal vecchio guardiano) non hanno lasciato traccia. Né l’hanno lasciata le faticose e problematiche mediazioni con le quali il regista ha accompagnato l’evolversi del boom. Il suo sguardo polemico, anzi, ha man mano investito il degrado sociale rifiutando con nettezza ogni “sollievo” di fede. Da tale presupposto l’indiscutibile impegno di molte parrocchie a favore degli immigrati, per venire al film di oggi, non attenua la critica; Olmi denuncia il ruolo storico troppo spesso esercitato da una Chiesa complice del potere o, peggio, disposta a usare negli episodici contrasti gli stessi mezzi. La polemica può dunque sollevare perplessità e delusione fra chi si impegna quotidianamente ma ha, credo, il valore di una intransigenza (cristiana dal profondo) a lungo meditata.

 

Un apologo - «Il bene non ha bisogno della fede », sussurra il vecchio prete, e anche: «Il bene viene prima della fede». Perché allora, sembra chiedersi – e Olmi con lui – nella sua storia secolare la Chiesa ha imposto la fede come condizione primaria, come filtro unico per la qualifica del bene? È una domanda antica, ma Olmi vuole continuare a porla, cogliendo nelle risposte eluse o mancate ragioni di dominio sulle coscienze (esercitato negli ultimi anni anche attraverso le moderne suggestioni mediatiche) e persistenza della discriminazione. Se resiste il “dogma” del privilegio e dell’elezione (il vero Dio che all’occorrenza scenderà in campo con noi) non vi sarà ecumenismo che basti, né carità concretamente vissuta e generosamente praticata a favore dei deboli.

Claudio Magris ha parlato, a proposito di Il villaggio di cartone, di elogio del dubbio. Cioè del dubbio, aggiungerei, come mezzo per approdare all’umiltà, come anti-ideologia e promozione della terrestre debolezza. O, forse, ambito entro cui l’esperienza del bene si fa vera ascesi – ricordo l’eroica lotta di padre Paneloux in La peste di Camus –, ma di uomini fra uomini. E un po’ con lo stile del pastore bergmaniano di Luci d’inverno: divorato dal dubbio, e tuttavia stoico di fronte alla responsabilità verso gli altri e verso se stesso.

Bergman non si affaccia per caso. L’apologo irrealista e “teatrale” di Olmi risente della lezione del maestro svedese e, con le sue forme scolpite, non manca di richiamare Dreyer. Teatro per unità di luogo, quindi, e cinema che si fa indispensabile (dettagli, riprese dal basso o dall’alto, primi piani a ingrandire piccoli oggetti come la crocefissione di cartapesta) quando l’immagine deve suggerire una nuova, inattesa sacralità: la vasca battesimale, ad esempio, posata sotto il finestrone per raccogliere l’acqua necessaria.

Bergman e Dreyer sembrano però rivisitati da un’ottica nostra, mediterranea; da colori caldi e pelli scure. Funziona, il rapporto? Non sempre. Qualcuno potrebbe infatti rimproverare al regista un contrasto estetico-linguistico che, talvolta, si traduce con eccesso di rarefazione e qualche “immobilità”; e tuttavia, se l’essere Olmi non abbastanza fedele ai modelli o troppo italiano ha fatto un po’ irrigidire la messa in scena (ma con quale abilità drammaturgica, e pulizia figurativa – a quando un pieno riconoscimento per il figlio Fabio, direttore della fotografia? – sapienza nella scelta e nella modulazione delle musiche), resta in essa felicemente riconoscibile l’eredità dei presepi viventi e delle sacre rappresentazioni. Ossia, ben oltre il folclore di sagra, di un’arte popolare e, soprattutto, povera.

Le onde nere - L’apologo richiama figure di tradizione evangelica: Gesù in fasce, la Maddalena, Giuda traditore… ma Olmi preferisce agire per sfioramento piuttosto che proporre una nuova variazione filmica sui testi. Come per sfioramento allude a un possibile, prossimo futuro poliziesco (la squadra armata fa pensare alle camicie verdi, alle ronde), a un cieco destino di guerra, e a forme disperate di lotta come quelle dei kamikaze suicidi: figure dell’odierna tragedia (non solo araba, anche cecéna, tanto per ricordare l’ecatombe così volentieri rimossa dalle potenze occidentali e dalla loro informazione), prima che dèmoni.

Teatro per unità di luogo, dicevo, e apologo; cioè scelta classicamente irrealistica, astratta. Da ciò il regista muove per quello che, nel finale, sarà un rapidissimo colpo d’ala. Il mare tempestoso era già apparso dal televisore sempre acceso del vecchio prete; subito dopo la dissolvenza del motto: «O cambiamo il senso impresso dalla storia o sarà la storia a cambiare noi». E appena prima che appaiano i titoli di coda, lo stesso mare irrompe a tutto schermo. Onde nere, minacciose, una rabbia naturale che, dall’eco del portone spalancato e di uno scoppio forse procurata dai ragazzi del commando, traduce il presepe vivente in “fantastico”, e “biblico”, senso di realtà: un attimo soltanto per secoli di storia.