I lettori di Cineforum al Cinema Ritrovato

Come inguaiammo il cinema italiano su Il Cinema Ritrovato – Fuori Sala

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Il Cinema Lumière della Cineteca di Bologna ha riaperto, mentre continua in streaming la variegata programmazione del Cinema Ritrovato – Fuori Sala, che propone per i lettori di Cineforum un abbonamento ridotto a 12 euro anziché 15, inquadrando il QR code che trovate sull’ultima pagina del n. 1 della rivista. Nel frattempo filtrano i primi titoli del Festival Cinema Ritrovato “dal vivo” (a Bologna dal 20 al 27 luglio). La vendita degli accrediti si è aperta sul sito Il Cinema Ritrovato e agli abbonati a Cineforum verrà riconosciuto uno sconto del 50% (60 euro invece che 120), mentre per gli accreditati al Festival l’abbonamento annuale a «Cineforum» costerà 36 euro invece di 40.

Nell’attuale programmazione in streaming della Cineteca, il film di Ciprì e Maresco Come inguaiammo il cinema italiano – La vera storia di Ciccio e Franco. Vi proponiamo la recensione di Alberto Morsiani, apparsa sul numero 439, novembre 2004.


Sicilia ieri e oggi, in chiave “glocal”

Il film inizia con pezzi di repertorio, sia televisivo che cinematografico, sulla coppia Franco e Ciccio. Seguono interviste con testimoni e ammiratori, tra i quali Mario Monicelli, Pino Caruso, Pipolo, Kezich, Fulci. Prende avvio il racconto della fortuna della coppia, dall’infanzia poverissima agli stentati esordi, su umili palcoscenici per Ciccio e sulla strada per Franco. Viene descritta la filosofia della “posteggia” e poi l’intricata, controversa vicenda della loro “scoperta” da parte di Domenico Modugno. Seguono i “capolavori” con Lucio Fulci, il grande successo, i dieci e più film all’anno, l’angosciante incontro con Buster Keaton, le velleità “artistiche” di Ciccio, la rottura tra i due a metà degli anni ’70. Per un po’ le due strade si separano, Ciccio lavora con Petri e Fellini, Franco gira il “cult” Ultimo tango a Zagarol, presa per il bavero di Bertolucci che, intervistato, dimostra al riguardo spirito e ironia. Le ultime comparsate, la riappacificazione, la scomparsa prematura di Franco, la vecchiaia e la stanchezza di Ciccio. Il tutto inframmezzato sia da interviste, ad esempio ai parenti della coppia, sia di brevi scene filmate espressamente a mo’ di sceneggiata. E naturalmente i più esilaranti sketch della coppia siciliana, tratti da venticinque film diversi e da innumerevoli programmi televisivi.

Che dire? La coppia di siciliani Ciprì-Maresco si accosta ai conterranei Franco e Ciccio con grandissima riverenza, fin troppa a volte, a far desiderare una maggiore spregiudicatezza e provocazione. Il rispetto è tale però da ingessare un po’ il film, a tratti, come se lo scopo principale fosse, ancora, quello di far accettare i due nel grande convivio nazionale, di renderne manifesti e universalmente riconosciuti gli enormi meriti. Il risultato è, da un lato, di portare un po’ di fascina al grande falò che si sta accendendo in gloria del cinema popolare italiano (in parallelo alla “riscoperta” dei re del B-movie nazionale, i Castellari i Di Leo i Martino i Lenzi oltre ai già riabilitati Bava Freda Fulci Margheriti eccetera), dall’altro di riscoprire, in epoca di globalizzazione galoppante, il “sano” cinema regionale di una volta, ormai fagocitato da codici sempre più omologati. È sicuramente, difatti, la “sicilianità” l’aspetto più potente del film: sicilianità, insularità di radici, di sentire, di luoghi e personaggi, di storie. Si oscilla, per tutto il film, tra la tentazione di allargare i confini, di rendere adeguato merito al valore “nazionale” della celebre coppia di guitti, con paragoni e pareri anche illustri, e, al contrario, la voglia sotterranea di restringere i loro confini, di farne patrimonio e monopolio di una regione, di una terra, di un’epoca vissuti giustamente come irripetibili.

La Sicilia, l’isola, come metafora di una Italia ancora pre-moderna. Scherzando un po’, potremmo dire che quello di Ciprì e Maresco ambisce ad essere un prodotto glocal, dove l’universalità e la generalità vengono assicurate e vanno di pari passo con il localismo della geografia, della cultura. Della fame, soprattutto. Sicilia uguale fame, si direbbe; è la fame a spiegare Ciccio che si trascina per sbilenchi palcoscenici di provincia, saltando due pranzi su tre e scappando di buona mattina dalle locande per non pagare il conto della nottata; è sempre la fame a spiegare le “postegge” di Franco, queste incredibili sceneggiate teatrali che si svolgono lungo le strade e nelle piazze e in cui compaiono fachiri, forzuti, orchestrine. E naturalmente il comico, quello che ha il compito di tenere tutto assieme, e che deve essere provvisto di una mimica formidabile, e magari di una fisicità flessibile, impressionante. Come quella di Franco, mimo incredibile appunto, che quando fa la marionetta snodata o deforma la faccia in irresistibili smorfie supera quasi l’idolo e prototipo Totò.

Poi, le due vie un po’ si biforcano. Mentre Franco rimane uguale a sé sempre, eterno e immutabile come le maschere dell’arte, Ciccio vorrebbe affrancarsi da una pratica che vive come umile, di serie b (paradossale, i protagonisti del cinema popolare erano i primi a denigrare le cose che facevano: ai critici successivi il compito di far loro “capire” che non avevano “capito” niente…), e dedicarsi a tempo pieno a cose da lui ritenute più importanti. Anche qui, il film affronta un’altra delle questioni più classiche e dibattute: che differenza c’è, se c’è, tra pratiche alte e pratiche basse, tra high brow e circenses? Tra, appunto, Ultimo tango a Parigi e Ultimo tango a Zagarol, con l’intervento nel film di Bernardo Bertolucci, divertente, che confessa di non voler vedere il secondo perché teme il confronto… Parodia come minaccia del prototipo preso troppo sul serio.

Naturalmente, si può ribaltare come si vuole e in ciascun momento ogni gerarchia consolidata dei valori e ogni consacrata storia del cinema sostenendo, ad esempio, che Franco e Ciccio sono dei geni assoluti da mettere davanti a tutto e tutti. Un esercizio profittevole dal punto di vista della ricerca e della conoscenza, perché obbliga a vedere e comprendere senza snobismi, ma che rischia il pericolo del vicolo cieco, perché giocato su una scala di valori senza molte possibilità di riscontro. O, se vogliamo, con troppe possibilità. Certo, ci fa più ridere Franco Franchi di un Jack Lemmon o di un Jim Carrey, ma ciascuno in realtà satireggia o interpreta a modo suo un momento, uno spaccato di società, un ambiente particolare. A partire da un codice e da una norma di valori ogni volta differente. Difficile dunque allargarsi più di tanto, in questa direzione: altrimenti, dove lo mettiamo il Buster Keaton protagonista suo malgrado della tristissima comparsata di Due marines e un generale, in cui i due comici siciliani visibilmente si trattengono per non polverizzare ulteriormente il fantasma del cinema muto, per non infierire sul più grande dei loro idoli?

Franco e Ciccio, nell’appassionata disamina di Ciprì e Maresco, appaiono i campioni riusciti di una pantomima regionale e limitata, ma non è chiarito fino in fondo il loro ruolo su di un palcoscenico più ampio, nazionale. Né lo potrebbe, perché troppe sono le questioni in ballo qui. La televisione li ha sfruttati a fondo, spremendone ogni succo come da due limoni benedetti dal sole del Sud, ma appunto trattandoli come una sorta di arcaismo, di reperto di un’Italia profonda che fu, ormai destinata a sparire nel grande tritatutto nazionale, nella centrifuga della incipiente globalizzazione degli stili, dei comportamenti, dei livelli di vita (il “benessere” finalmente alla portata di ciascuno di noi), dei codici culturali, ed anche delle etiche individuali. Sopravvive certo, come sopravviveva pure in Totò e ancora nel primo e miglior Sordi, l’aspetto surreale, in qualche modo fuori dal tempo, dalle mode, dalle contingenze socioculturali: una smorfia è una smorfia è una smorfia. L’aspetto marionettistico di Franco, soprattutto e con solare, incontenibile evidenza.

Dalle atellane e dai fescennini ai palinsesti televisivi, ai format degradati e degradanti: Franco e Ciccio bruciano, in pochi anni, secoli di filosofia e pratica dello “spettacolo”, attuano o sono forzati ad attuare un cortocircuito fulminante tra gestualità ancora largamente arcaiche e la “modernità” della trasmissione catodica rivolta a tutti, non più solo agli spettatori raccolti su di una piazza del paesello. Un ben strano destino, un salto temporale e culturale immenso che poi i due comici in qualche modo hanno pure pagato direttamente sulla loro pelle, nelle modalità del loro declino e scomparsa. Consideriamo attentamente, ad esempio, la terribile frustrazione che si è impadronita, a un certo punto, di Ciccio, e che lo ha consumato nella carne, nella sua convinzione di essere arrivato al fondo di un vicolo cieco, e che il film ben documenta con immagini malinconiche, a tratti struggenti; oppure, la rapidissima malattia che ha annientato Franco, dopo i grandissimi dispiaceri causatigli dall’apparizione come attore nel “cult” sessuofilo Ultimo tango a Zagarol, dove gli si faceva mostrare il posteriore e che lui considerava aver sporcato per sempre la propria “immagine” di sano e pulito uomo del popolo, e dalle accuse mai veramente chiarite piovutegli addosso per aver frequentato la famiglia mafiosa dei Greco… Insieme a Franco e Ciccio, dunque, i loro ammiratori e protospettatori Ciprì e Maresco resuscitano un bel po’ di fantasmi del passato, ma, forse involontariamente, sono portati anche a riflettere sull’eterna manchevolezza dell’arte, di ogni arte, che riproduce la realtà e l’ambiente e la vita ma in qualche modo lavora per superarle, senza sapere bene in che direzione.

Queste dinamiche sotterranee attraversano i molteplici luoghi del film, le scene delimitate per terra da un cerchio di gesso ad uso della “posteggia”, i teatrini d’avanspettacolo, i bar degli artisti dove avvengono gli incontri tra attori squattrinati, e poi i set di film girati in quattro e quattr’otto con registi abili e precisi e il “gigante” Lucio Fulci, e i grandi studi televisivi che Franco e Ciccio riescono però, ancora per un po’ e miracolosamente, a riportare alla misura e alla portata delle loro lupare siciliane che sparano gags visive e verbali a mitraglia. Emerge il retroterra familista e saldamente “morale” dei due, fanno la loro apparizione parenti simpatici e umani, figli che conservano caramente il nostalgico ricordo dei loro genitori. Una eredità di affetti, una solidità morale quasi impensabile al giorno d’oggi, con i terrificanti personaggi che ci sono in circolazione, tra veline grandi fratelli e intercambiabili, micidiali “nuovi comici” televisivi che sembrano spuntare dal nulla del tubo catodico come i funghi dopo un temporale.

Con la televisione che domina incontrastata e il popolo bue che assiste come ipnotizzato, non c’è più bisogno di nessuna “umanità”, se non di quella fasulla e costruita ad arte degli innumerevoli reality show. Il film indugia spesso e volentieri su questa “umanità”, di Franco e Ciccio e del loro ambiente di origine: una umanità che, alla lunga, emerge come il valore più rilevante e duraturo espresso da una coppia solo in apparenza volgare e dissennata; è questa umanità che la tiene unita anche e nonostante i continui litigi, dovuti all’ aspetto anoressico di Ciccio, che voleva selezionare sempre più verso l’“alto” le proposte di lavoro, e quello, all’opposto, bulimico dell’instancabile e ingordo Franco, che invece si consumava nell’ansia di correre dietro a tutto, spinto dalla fame atavica che fu anche di Totò e di Sordi agli inizi…

Dunque, alla fine dei conti, il film di Ciprì e Maresco è sì un risarcimento postumo alla celebre coppia di comici (non che ce ne fosse bisogno, tutto sommato), come era nell’evidente intenzione degli autori, ma anche e forse soprattutto una riflessione teorica, probabilmente involontaria, del rapporto di amore e odio che Franco e Ciccio hanno per un breve periodo saputo instaurare tra due stili di vivere e far ridere, due modelli culturali, due codici comportamentali, in definitiva tra due Italie ancora inconciliabili, quella della piazza del paese e quella della “piazza” televisiva e telematica; due Italie colte nell’estremo istante di vita prima che confluissero in una sola, nel pastrocchio omogeneizzato, plastificato, senza più “luoghi” ma solo “spazi” di palinsesto e di passerella, che abbiamo davanti agli occhi oggigiorno. Le sane “distinzioni” ancora presenti nell’arte di gente come Franco e Ciccio non esistono più ormai, sono andate perdute per sempre.