Felice di vivere: la Natività secondo Ermanno Olmi

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Questo Natale cade l'ottocentesimo anniversario dell'istituzione del Presepe: fu nella Santa Notte del 1223, infatti, che a Greccio, su idea di san Francesco di Assisi, venne messa in scena la prima Natività di Gesù della storia. Ermanno Olmi (di cui si è appena concluso l'articolato omaggio “Prospettiva Olmi”, organizzato da Fic-Federazione Italiana Cineforum nell'ambito di Bergamo Brescia Capitale della Cultura 2023) fece un suo personale Presepe nel 1983 con Camminacammina: un film toccante, che parla alle nostre più intime corde spirituali, ma che tuttavia non fu bene accolto dall'establishment nostrano, sia critico che religioso (ne parlò, su «Cineforum», Gualtiero De Santi, in un articolo apparso sul n. 231, gennaio-febbraio 1984, che qui riproponiamo). Olmi, alla conferenza stampa di presentazione del film al Festival di Cannes, disse: «Da credente rifiuto decisamente le certezze che mi vengono dettate, se non lasciano spazio ai dubbi che io stesso mi impegno a superare. La fede deve nascere da una lotta sincera, da un conflitto tra noi stessi e i nostri dubbi». Alla domanda di Luca Cupiello «Te piace 'o Presepio?», ci sentiamo di rispondere senz'altro: «Quello di Olmi, sì!».

 

«Cineforum» n. 231, gennaio-febbraio 1984

 

Speciale Camminacammina, le vicissitudini dell'ultimo Olmi

Il tradimento e la vendetta dei chierici

 

Gualtiero De Santi

 

«S'è patito un gran freddo per istrada / La peggiore stagione dell'anno / Per un lungo viaggio come questo: / Le vie s'affondano e il tempo si fa rigido / Proprio nel colmo dell'inverno». Sono i Re Magi di Thomas Stearns Eliot, procedenti a un vagabondaggio il cui buon esito è in tutto omologo alla fede del poeta («Certezza avevamo e nessun dubbio»). Sarà che i tempi sono al giorno d'oggi più avventurosi e persino più drammatici (eppoure Eliot avvertì e sofferse tra i primi quella che Mario Praz ebbe a definire l'età dell'ansia). O che gli antichi integralismi dimostrano uno dopo l'altro di disintegrarsi. Sta di fatto che i Re Magi di Ermanno Olmi (quelli di Camminacammina) non solo non raggiungono per viltà la fatidica capanna del Redentore, ma la stessa opera che ne descrive la perdita di rotta e le improntitudini s'è trovata ad avere un destino speculare, sia pure nelle differenze. Proprio il coraggio con cui Olmi l'ha prima pensata e poi voluta le ha chiuso l'accesso al vasto pubblico, che pure aveva sanzionato il clamoroso esito de L'albero degli zoccoli. Le stesse turbe cielline, che si erano affannate a propagandare strumentalmente quest'ultimo film, stavolta si sono defilate con sospetto tempismo.

Ma per un riscontro: in quanti hanno visto Camminacammina (o sono andati a rivederlo dopo Cannes?) e quanti poi hanno pensato, sia pure di straforo, di essere in presenza di un casus belli che andava al di là del suo stesso valore estetico mettendo in luce aporie e dissonanze di fondo della nostra vita culturale e sociale?

I fatti sono credo largamente conosciuti; ma merita ugualmente il conto di riferirne. Il film viene presentato fuori concorso al festival di Cannes nella giornata di mercoledì 11 maggio 1983 (che dovrebbe essere la data della prima proiezione mondiale). Le accoglienze sono tiepide, di circostanza, specie da parte italiana. Migliori le reazioni dei francesi; il critico de «L'Express» giungerà a parlare di «un parfum d'éternité», ma anche gli altri giornalisti si mostrano compresi dell'avvenimento.

I turbamenti della censura - Olmi ha accettato di essere presente al Festival, cinque anni dopo il trionfo de L'albero degli zoccoli, per offrire un appoggio e una ribalta internazionale a un'opera che anche lui sa ardua e difficile, pur in tutta la trasparenza e la semplicità di cui fa scialo. Dichiara a un cronista del «Corriere della Sera»: «Qui a Cannes bisogna venire preparati alla festa: nei festival infatti la ragione cinematografica diventa la ragione in assoluto, senza spazio per altri o per altro, mentre in questo caso io mi sento più uomo che regista, così come, fra il pubblico, io cerco sempre più l'uomo che lo spettatore». E aggiunge: «Ho già detto e ripeto che, in un'ipotesi irreale, ma ideale, lo spettatore di Camminacammina dovrebbe assistere al mio film da solo, e naturalmente questa atmosfera nella “bagarre” del festival non può esserci, e sarebbe illusorio pretenderla. Per questo sono stato indeciso fino all'ultimo se portare Camminacammina a Cannes, poi ho obbedito volentieri ai miei produttori che insistevano per la presenza del film, in quanto non posso che esser loro riconoscente per la libertà in cui ho potuto lavorare in questi anni».

Bene: se non che la realtà si incarica subito di scheggiare i buoni propositi. Da Roma cade fulminea la notizia della decisione di vietare il film ai minori di quattordici anni (tagliando cosi fuori il pubblico delle scuole), e arriva con essa la motivazione essa sì surreale della commissione di censura. Come recita il testo ministeriale, essa commissione «esprime parere favorevole alla concessione del nulla osta di proiezioni in pubblico con il divieto ai minori di anni quattordici, a causa di battute volgari assolutamente gratuite».

La pietra dello scandalo è il ragazzetto che nelle sequenze d'avvio snobba un prete con frasi tipo «Me ne fotto» o «Puttana Eva»; o che grida «Non fate casino!» ai pellegrini, perché diversamente, così come lui spiega al sacerdote che accompagna, quella gente non capirebbe un tubo. Insomma un esempio di espressionismo linguistico, neppure troppo accentuato, ma tale da dare evidentemente appigli e alibi alle ipocrisie dei censori. Pare di sognare, con quel che passa la cucina dei nostri cinematografari, ma anche con quel che si vede e sente nei film stranieri di successo. Ma tant'è. La cosa è così paradossale, e così clamorosa, che non si può congetturare un mero incidente di percorso: e tantomeno si riesce a pensare che essa non nasconda qualcos'altro, e che non sia come è evidente da ricondurre ai modi peculiari del film stesso.

Le poche migliaia di spettatori di Camminacammina ricorderanno infatti che nel film il diverso atteggiamento tenuto da potenti e umili, da monaci e popolo, da magi e contadini nello star dietro alla stella arrivata d'improvviso in cielo individua due linee strutturali e morali, che poi si defalcheranno nella parte finale. Svelatosi infatti che il Salvatore altri non è che un povero bimbo – non dunque un re – per giunta allocato dentro un'angusta capanna, i magi se la svignano. Il che nel film vale esattamente un tradimento. Poco male, se non fosse che essi – i magi – esemplificano la casta sacerdotale e, in un'ulteriore assunzione metaforica, il Potere e la Ricchezza. Da ciò lo scandalo (e il tentativo, riuscito, di messa al bando del film). In epoca di cattolicesimo woytiliano, trionfalistico e neotridentino, come coraggio di un credente davvero non c'è che dire!

La memoria del sacro - Camminacammina (lo ha rimarcato lo stesso Olmi in una intervista a «La Stampa») segna una svolta nella carriera del regista lombardo. Ma non in ragione di una impostazione intenzionalmente polemica. Nel concreto, il nuovo del film viene dal cuore stesso dell'opera di Olmi: dal sentimento del sacro, mai sopito, finalmente indiziato nel mondo e nelle persone, nelle cose e nella natura, e non già nel potere e nei suoi simulacri. Alla falsa spiritualità dei clericali, sunteggiabile nelle apparenze e nel conformismo di superficie, Olmi oppone sin dal bell'inizio e una volta per sempre la semplicità nativa del popolo di Dio. Ad esempio, dal calcolo di chi diviserebbe di sacrificare un candido agnello per mero formalismo, si distingue il fanciullo, che vuole invece l'animale salvo non reputando con questo di recare offesa a Dio, anzi.

Parallelamente, invece di scegliere la strada della ricostruzione secondo calcolate coordinate storiche e culturali, il regista si affida alla veracità del “maggio”, che è una messa in azione drammatica di avvenimenti evangelici, ancora oggi in auge in Toscana e in altre regioni. Una “sacra rappresentazione” gestita in persona dal popolo, senza alcuna intermediazione. Allo stesso modo, il rifiuto dello spettacolo e dell'immaginario da cartapesta dell'industria fa indisputabilmente il paio con uno stile, un po' prolisso e forse scivolante sui dettagli, ma attento a interrogare, rilevare e approfondire i suggerimenti e le suggestioni che sopraggiungono dalle azioni liberamente condotte.

Olmi è insomma ben lungi dall'essere indifferente all'inventiva dei suoi commedianti volontari: su questa accorda la sua personale invettiva, tratto in posizione di testimone ma anche di parte componente. La libertà che egli si assegna è intanto libertà da un racconto detto per filo e per segno, da un inizio a una fine: ed è libertà dall'ammasso di condizionamenti che oggi soprattutto vengono fatti gravare sugli autori di cinema.

Mentre scatta un'evenienza, o arriva un'occasione, o affiora un barbaglio, tutti ugualmente calamitati alla riscrittura della nascita di Cristo a opera della comunità contadina, subito con pervadente intensità la macchina da presa (tenuta dal regista) si scioglie nel flusso andante degli echi popolari di quell'evento. Ecco allora i volti lasciati bruciare dalla luce, i bruni incrociati con i bianchi accecanti (con effetti, come ha notato Jacques Siclier, latamente surrealistici), il tratteggio leggero ed effulgente delle piccole azioni, dei dialoghi scorrenti, degli incontri, tutti fatti cadere in una natura che è il luogo deputato dell'interazione tra umano e divino.

Sembrerà non molto per un artista appena reduce da un film, in cui pur con tutti i limiti storia e antropologia si davano la mano. Ma in questo spazio angusto sotto il riguardo spettacolare, però infinito allo sguardo dei puri di cuore (esattamente in senso evangelico), Olmi si concede la più ampia latitudine di procedimenti e invenzione, mettendo nel film più cose che non gliene sarebbero venute in un film decalcato su un plot. I risultati parrebbero discontinui e a tratti faticosi, ma in qualche punto essi sono decisamente abbaglianti (sempre Siclier su «Le Monde» parla di una grande opera: tanto che la prima a Parigi è stato un vero e proprio evento culturale).

Potere vs ragione comune - Si diceva più sopra della novità di Camminacammina nella filmografia olmiana: novità determinata dall'assunzione mitica e parabolica del concetto di popolo. Già questo individua un distacco reciso dalla galleria di personaggi piccolo-borghesi e borghesi dei film antecedenti (da Il posto a La circostanza). Qualche connessione può essere trovata con l'isolamento dei protagonisti de Il tempo si è fermato e dei Recuperanti; e naturalmente con i contadini de L 'albero. Ma in quest'ultimo caso l'impatto con la storia (l'avere al centro della propria «visione» condizioni di vita talmente disumane da occasionare sì qualche rimosso, qualche litote, ma senza sublimazioni e trionfalismi) chiudeva impura e irrapresentabile, e dopo eliminata la storia come luogo della corruzione e dell'entropia inevitabile, la verità poetica del racconto è garantita dall'incontaminata misura coscienziale di un mondo contadino legato allo scorrere delle stagioni e nativamente intenzionato alla realtà del sacro.

I laici inveterati – quelli che pensano alla religione come a una tenace malattia della mente e dell'anima (e forse in ciò hanno ragione) – potrebbero a questo punto osservare che, gira e rigira la frittata, si è sempre alla presenza di una concenzione del mondo, in cui il tasso di filtrazione e impollinazione metafisica permane altissimo. Altri parleranno di populismo.

Ma che il mondo espressivo di Olmi coincida con un'ideologia, cioè a dire con un credo religioso, è fuori discussione. Non questo va visto (e censurato). Ciò che è essenziale, è che questo sentimento con la relativa impaginazione scenica divenga di fatto infungibile alla ideologia religiosa accorpata al potere. II popolo culturale dei film di Olmi copre il rischio di apparire in situazioni stantite e banali, ma è del tutto estraneo alle ideologie e alle pratiche del dominio. È giusto in questo senso che Camminacammina diventa agli occhi del perbenista e del cattolico apostolico romano un film sbagliato e offensivo, e paradossalmente (ma poi non tanto) il candido e spontaneo Ermanno Olmi un autore eversivo.

Non vogliamo con questo dare del regista una immagine contraffatta ed edulcorata. Ma in un'epoca in cui tutti sbavano di postmoderno e affini, quando possedere una mentalità all'altezza del mondo significa affidarsi graziosamente a tutte le transazioni, uno che continua ancora a credere nel potere come tabe e nell'innocenza accoppiata alla salvezza, rischia di apparire patetico e démodé: ma è soprattutto assurdo. Eppure, Olmi pensa proprio al Potere in somiglianza con una forma di corruzione e pur senza essere un formidabile argomentatore di tesi ideologiche e culturali (come era un Pasolini), fa della odierna trahison des clercs (alla lettera, specie in Camminacammina) il punto di mira della sua polemica.

Il fatto che sia cattolico, non ne fa uno scaccino del sistema, o un bonario e andante suonatore di piffero. Ad altri bisogna riconoscere simili meriti: per solo fermarsi all'ambito dei registi credenti, si pensi a quanto ridicolo patisce il Krzyszstof Zanussi del filmato sulla Città del Vaticano (compreso in una serie della Rai dedicata alle capitali europee), in cui il didascalismo e il confessionalismo più bieco sortiscono effetti persino grotteschi, ovviamente si spera involontari.

Alla riscoperta della vita - La cosa essenziale, in Olmi, è che lui è credente prima ancora di essere cattolico, e la sua convinzione religiosa significa continuare a immaginare l'esistenza possibile. Ha dichiarato a Sergio Frosali all'ultima Biennale: «La grande gioia della vita umana qual è? Che l'uomo è la sola creatura in grado di stupirsi di fronte alle meraviglie del mondo. La gioia di vivere, questo stupore, ecco cosa mi aiuta a credere in Dio. E mi aiuta nel mio lavoro. Infatti realizzo i film per testimoniare che sono felice di vivere».