I sessant'anni di "Il signore delle mosche" di Peter Brook

Il buon selvaggio? Non cercatelo qui

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Fra gli aspetti più significativi della letteratura britannica, c'è il fatto non solo di aver inventato il genere utopico (per lo meno nella sua forma moderna, con Utopia di sir Thomas More), ma anche di aver prodotto i maggiori capolavori di quella che è il suo contrario, ovvero l'utopia negativa o distopia (Il mondo nuovo di Aldous Huxley; 1984 di George Orwell; Fahreheit 451 di Ray Bradbury; Arancia meccanica di Anthony Burgess). William Golding diede il suo contributo al genere, nel 1954, con Il signore delle mosche, autentico ribaltamento delle teorie rousseauiane del buon selvaggio e dell'innocenza infantile. Il romanzo, il cui titolo pare sia stato suggerito da T.S. Elliott con riferimento al diavolo e al concetto di malvagità, venne poi portato sullo schermo da Peter Brook in una versione assai fedele presentata al Festival di Cannes di sessant'anni fa. Sugli schermi italiani, Il signore delle mosche uscì più di dieci anni dopo: riproponiamo la recensione di Roberto Escobar, pubblicata su «Cineforum» n. 166, luglio/agosto 1977

 

«Cineforum» n. 166, luglio/agosto 1977

Il signore delle mosche di Peter Brook

Roberto Escobar

 

Lord of Flies, del 1963, è il terzo film di Peter Brook, dopo The Beggar's Opera (1952) e Moderato cantabile (1960). Brook nato a Londra nel 1925 è unanimemente considerato uno dei maggiori e originali registi teatrali inglesi, mentre la sua attività cinematografica è generalmente giudicata di livello inferiore. I suoi film più noti in Italia sono The Marat-Sade, tratto nel 1966 dal dramma in due atti di Peter Weiss La persecuzione e l'assassinio di Jean-Paul Marat, e Tell Me Lies (Raccontami bugie) del 1967, presentato nel 1968 alla XXIX edizione della Biennale Cinema. L'ultimo film girato da Brook la cui regia di opere shakespeariane ha spesso messo a rumore la critica teatrale è King Lear, del 1970.

Il signore delle mosche, tratto dall'omonimo romanzo di William Golding, giunge in Italia con un ritardo di quasi quindici anni; è inevitabile dunque che abbia perso un po' di quella carica corrosiva e violenta per la quale fu a a suo tempo rifiutato dalla critica ufficiale a Cannes. E tuttavia, visto oggi, il film mantiene la caratteristica più peculiare, quella di procedere, attraverso un apologo fantascientifico, ad un'anatomia impietosa di un certo tipo umano (indebitamente e astoricamente assolutizzato, ma pur sempre significativo) contro luoghi comuni che sono tra i più radicati (con “cattiveria” quasi buñueliana, Brook, sulla scorta del libro, demolisce lo stereotipo culturale che sancisce l'“innocenza” di bambini e ragazzini).

La fantascienza come astrazione storica

Nel 1984 – la data è quella resa famosa dal libro di George Orwell –, alla vigilia della Terza guerra mondiale, atomica e dunque definitiva, l'uomo civilizzato e il cosiddetto primitivo sono ancora contemporanei, entrambi strumenti di pulsioni violente, omicide e irrazionali: questo è, in prima approssimazione, l'assunto di Il signore delle mosche. Il film, sia detto con buona pace dei numerosi estimatori del genere, conferma ancora una volta i limiti della fantascienza, capace (certo solo nelle migliori delle ipotesi) di criticare radicalmente l'esistente, portandone fino alle più paradossali conseguenze le fondamentali contraddizioni, ma incapace di indicare una reale alternativa a esso. In altri termini, per riprendere qui un'opinione di Alexander Kluge anch'egli autore di alcuni film fantascientifici, la somma di fantasia e di scienza non riesce a giungere all'utopia positiva, all'indicazione di un atteggiamento, di un progetto volto alla modificazione del presente.

Nel film di Brook questo duplice aspetto della fantascienza si manifesta puntualmente. L'analisi spietata di un certo tipo umano e di un determinato tipo di rapporti intersoggettivi è condotta nel più totale vuoto storico. La conseguenza è che l'uomo e i rapporti presi in considerazione – quelli borghesi occidentali – sono assolutizzati e con essi è assolutizzata la loro fine, che diventa la fine necessaria dell'umanità intera. D'altra parte, però, l'analisi stessa, nonostante la sua astrattezza e la sua astoricità, mantiene molteplici motivi di interesse e risulta in ultima istanza probabilmente oltre le intenzioni degli autori persino storicamente leggibile.

Robinson e il suo contrario

Non è difficile vedere nell'apologo di Golding e di Brook il rovesciamento del mito di Robinson Crusoe: mentre l'eroe positivo della borghesia inglese in piena ascesa economica e storica, naufragato su un'isola deserta, conferma la “superiorità” dell'uomo occidentale e della civiltà borghese, gli eroi negativi di Il signore delle mosche, prodotto letterario e cinematografico di una opposta fase decadente della stessa classe, non solo non “confermano” nulla, ma addirittura regrediscono allo stadio selvaggio. Occorre notare, comunque, che, al pari del mito, anche il suo rovesciamento come si è accennato è soggettivamente situato fuori della storia. Ciò in conformità con la scarsa attitudine storica che è tipica della borghesia, abituata a scambiare se stessa e il proprio mondo con la condizione “naturale” dell'uomo e, appunto, del mondo.

Giunto sulla spiaggia della propria isola, Robinson immediatamente inizia a “dominare” la nuova realtà con quelle categorie razionali e con quegli strumenti intellettuali che stando all'assunto del libro scritto da Daniel Defoe attorno al 1720 gli appartengono naturalmente, indipendentemente da considerazioni di carattere sociale e storico-economico. Ebbene la stessa “naturalezza” qualifica l'opposto comportamento di Jack e della quasi totalità dei piccoli naufraghi. L'assunto di Il signore delle mosche è che, al di sotto dell'uomo civilizzato, sta, sempre in agguato e pronto a riemergere un “uomo selvaggio” dai tratti psicologici e pulsionali immodificabili e, appunto, naturali. Se Robinson, dunque, costituisce la astorica apologia dell'uomo borghese-occidentale, Jack e i suoi sono una sua altrettanto astorica smentita.

Ralph, dal canto suo, sembra riprodurre in sè i tratti del personaggio creato da De Foe. In realtà, invece, egli dimostra che quei tratti sono illusori, che la loro "superiorità" svanisce di fronte alla "natura'. Le sue leggi, la sua "prudenza", la sua capacità di "prevedere" e programmare, tutto ciò nulla può contro la negazione di ogni razionalità che prevale appena i freni della civiltà siano scomparsi e si riformi la logica del clan. Non solo non si afferma alcuna superiorità nei confronti di alcun Venerdì, ma addirittura la autodissoluzione dell'umanità borghese-occidentale e della sua cultura awiene nei rapporti tra uomini borghesi-occidentali.

L'uomo selvaggio come contemporaneo

Ma “Robinson e il suo contrario” non esauriscono il discorso di Il signore delle mosche che va ben oltre. L'assunto vero del film è che l'“uomo moderno” e l'“uomo selvaggio” sono contemporanei: il secondo si nasconde e vive dentro il primo. Nella “dimostrazione” di tale opinione un ruolo centrale spetta all'elemento del gioco: il gioco che consente ai protagonisti del film di lasciarsi prendere totalmente ed esplicitamente dal “primitivo” che è in loro. Un gruppo di adulti, probabilmente, vivrebbe lo stesso processo involutivo sostanziale, mantenendo l'apparenza e le forme della “civilizzazione”.

Solo Ralph, Piggy e Simon resistono alla regressione ma si vedrà fra poco che parlare di “regressione” è inesatto: Simon supera la paura del mostro (che si pone all'origine dello scatenarsi della violenza nella forma più sfrenata) con il suo scetticismo e la sua attitudine empirica, ma la scoperta della “verità” nulla può contro gli impulsi collettivi verso il sangue; Piggy confida, invece, nella ragionevolezza e nel buon senso tipici di un tipo umano “mercantile” come quello borghese, ma anche il suo atteggiamento soccombe di fronte al piacere della gratuita irragionevolezza; Ralph, infine, resta fino all'ultimo fedele all'ideale etico-politico della propria classe, ma si vede costretto a subire la sua negazione. Tutti gli altri seguono Jack, il “capo dei cacciatori”, la cui violenta irrazionalità è pari, significativamente, all'atteggiamento autoritario e conformista con cui, in patria, aderiva al proprio ruolo sociale di “capo del coro”.

In questo modo, un gruppo di civilissimi borghesi ripristina tutto il rituale “primitivo”, si ricrea un dio sanguinario e si affida, per la propria “salvezza”, a pratiche magico-religiose e sacrificali. Così facendo, il gruppo si discosta dalla propria matrice culturale? O, più semplicemente, rende palesi le costanti di fondo di tale matrice? La risposta è abbastanza univoca: tra gli adulti che stanno distruggendo il mondo e questi loro figli che, alla fine del film e prima di essere “salvati” da una nave britannica, hanno distrutto un'intera isola, non c'è differenza (neppure, allora, si può parlare di regressione). Non solo, dunque, Robinson soccombe all'inciviltà: addirittura la sua “civiltà” non è che un modo particolare d'essere di un perenne ed eterno “selvaggio”.

L'es – l'inconscio, la somma degli istinti primordiali, delle pulsioni – si rivolta contro l'io – la ragione, l'essere coscienti – e ne fa saltare le sottili barriere. La legge e la scienza (la conchiglia che in consiglio, per convenzione, dà diritto alla parola, il fuoco attorno a cui, all'inizio, sembra possibile riprodurre la civiltà) non possono nulla contro l'onnipotente patrimonio delle pulsioni originarie. Questa pessimistica visione che si muove all'interno di una assolutizzazione e ipostatizzazione (ma in realtà di una sostanziale deformazione ideologica) della psicoanalisi è completata dalla considerazione che il super-io resta come irrazionale completamento dell'es: se ora è apertamente “selvaggio” e richiede sangue e sacrifici umani, non diverso era, nella sostanza, prima (la logica divina del sangue e della vittima sacrificale, del resto, è portata alle ultime conseguenze proprio dal cristianesimo).

Il ritorno alla “civiltà”

Della analogia, meglio della fondamentale identità tra “primitivo” e “civilizzato”, alla fine e quando ormai per l'intervento provvidenziale del mondo degli adulti il “pericolo” sembrerebbe passato, si rende conto Ralph, con sgomento. Nel momento della massima paura Ralph sta per essere raggiunto e sacrificato al dio si ritorna alla civiltà: se questo è certo un espediente drammatico che dà ritmo alla narrazione. tuttavia è anche un elemento significante. In effetti la salvezza portata dalla nave britannica è solo apparente: Ralph scorge un marinaio che ricorda sorprendentemente nel fisico Piggy: al di fuori dell'apologo, al di fuori dell'esperienza improbabile dell'isola, la realtà vera è fatta degli stessi soprusi, della stessa irrazionalità, della stessa violenza che ha guidate il clan del “signore delle mosche”.

Allo sgomento di Ralph fa riscontro, dall'altra parte, il disappunto dei suoi persecutori che, nella “civiltà”, vedono (erroneamente) la negazione della voluttà di sopraffare. In realtà, invece il loro “ritorno” alla normalità è un ritorno a un diverso atteggiarsi di tale voluttà, descritto da Brook all'inizio del film con immagini ferme di scene di guerra e distruzione. Lo sgomento di Ralph che è sostanzialmente anche degli autori è omogeneo sia all'astrattezza dell'analisi (che riduce tutto in termini psicologici e “naturali”) sia alla conseguente incapacità di intravvedere un futuro qualitativamente diverso dal presente. Per riprendere il discorso accennato all'inizio, tendenzialmente la fantascienza, pur collocandosi nel futuro, non riesce ad avere il senso, appunto, del futuro. Essa si limita ad essere simbolo amplificato e radicalizzato del significato negativo del presente.