Un autunno di 60 anni fa, parte 1 – Il mondo sull'orlo del baratro

"Il dottor Stranamore" 60 anni dopo

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Esattamente sessant'anni fa, si stavano vivendo le ore cruciali di quei formidabili, tremendi tredici giorni che avrebbero potuto portare la Terra oltre le soglie dell'estinzione totale. Come si sa, a metà ottobre del 1962 la scoperta di alcune basi missilistiche sovietiche in costruzione sull'isola di Cuba portò a un durissimo confronto fra le due Potenze guidate da Kennedy e Chruščëv, risolto dopo quasi due settimane di frenetici negoziati. Il cinema seppe subito interpretare tutte le paure di quei giorni tremendi, con diversi film i cui due più famosi e riusciti sono stati A prova di errore di Sidney Lumet e Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick. Riproponiamo la recensione di quest'ultimo, scritta dall'allora redattore capo di «Cineforum» Francesco Dorigo e pubblicato sul n. 34, aprile 1964 della rivista.


Il Dottor Stranamore – Ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba
di Stanley Kubrick

La “Nuova frontiera”, dietro alla quale, secondo concetti più volte espressi dal presidente Kennedy, due mondi in contrasto possono trovare un punto di incontro, un possibile aggancio comune, anche se essi sono fratturati da due opposte concezioni della politica e da diversificazioni ideologiche, tenta di risolvere uno dei problemi più angosciosi del nostro tempo: instaurare la coesistenza pacifica basata più di tutto sulla paura di un pericolo comune quale la guerra nucleare. È inutile parlare di fratellanza universale, di amore, quando ragionamenti e sofismi scavano per accentuare sempre di più le fratture fra gli uomini, e quando siamo ancora lontani da una intesa vera. Allora, essendo l'azione limitata sul piano di una concreta realtà, e senza tuttavia rifiutare la lotta politica e ideologica, ben venga anche questa soluzione provvisoria, dato che esiste almeno una comune linea d'intesa.

[…] Uomini di buona volontà o più semplicemente opportunisti in attesa di nuovi sviluppi sono dunque venuti nella determinazione di smobilitare gli animi, di intervenire, alla fine, nella distensione internazionale. Fra questi, il più vicino a noi per temperamento e per obiettività, c'era il compianto presidente Kennedy. È sua, quindi, la teorizzazione della “Nuova frontiera”, modo del tutto americano per definire non già la linea di frontiera segnata dalle piste dei cavalli del West, nè tanto meno dalle strade polverose battute dai carri dei pionieri alla ricerca di una ricchezza favolosa, ma da una frontiera che è ideale, e assomma in sé spirito di sacrificio, capacità di rinuncia, alto senso di responsabilità.

Qui si è allineato anche una parte del cinema americano. Può darsi che sia stato, questo, frutto della distensione kennediana, e perciò che, cambiando presidenza, anche il cinema faccia un ritorno a certi maccarthismi o razzismi oltranzisti; fatto sta che, oggi come oggi, il cinema americano si è mosso proprio in una direzione fino a qualche anno fa insospettabile. Si potrà dire che due o tre film non sono certamente sufficienti per dimostrarci la definitiva evoluzione di tutta una produzione cinematografica; ma ritengo non sia per puro caso, o per una occasione voluta, che due film, Sette giorni a maggio di John Frankenheimer e Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick, abbiano un denominatore comune, e si siano proposti un tema assai vicino alla linea politica kennediana.

Questa premessa del resto serve per iniziare un discorso sull'ultima opera di Kubrick, alla quale mi sembra dover riservare un'attenzione particolare, dal momento che essa risulta un po' difficile per il modo soprattutto con cui affronta l'argomento. A cagione di ciò sarà bene, prima di ogni altra cosa, conoscere cosa è stato Kubrick, prima di adesso, e quale peso abbia avuto la sua attività precedente.

Il regista

[…] Mi voglio soffermare un poco su un altro film che mi sembra debba essere perfettamente inquadrato nell'attività di Kubrick, in riferimento all'opera che sto esaminando. Parlo di Orizzonti di gloria. Anche qui il tema comune era la guerra. La vera guerra, combattuta da uomini comuni, che non si lasciano influenzare dai facili eroismi e dalle retoriche nazionaliste. La guerra dei soldati, quindi, in contrapposizione con quella meditata a tavolino da generali privi di contatti umani, i quali muovono i combattenti come su una scacchiera si muovono le torri e gli alfieri. Il film certamente risultò uno dei più spietati atti d'accusa non solo contro la guerra in sè, ma contro il meccanismo mostruoso che tale flagello umano mette in moto, allorchè viene affidato nelle mani di generali irresponsabili, stupidamente legati a schemi accademici, disposti in ogni occasione a far carriera con la pelle degli altri. C'era in Orizzonti di gloria una vena polemica molto evidente: e quando, ad esempio, alcuni soldati vengono mandati alla fucilazione, lo schermo faceva presente una realtà mentale molto frequente, e mostrava altresì le reazioni emotive e umane di gente comune, di uomini come noi, di esseri per i quali la vita era un dono da preservare e da contrapporre ai·tentativi massificanti imposti da una gerarchia militare rigida e piena di ridicoli conformismi, irresponsabile e inumana nei gesti e nelle decisioni.

Si può facilmente arguire come Orizzonti di gloria potesse procurare un grosso dispiacere a chi sentiva ancora vivo il ricordo di un passato e di un'esperienza tanto più lancinante quanto più ad essa avevano sacrificato centinaia di migliaia di morti. Si può anche arguire che il discorso iniziato da Kubrick non poteva restare senza un seguito e quindi che il giudizio sulla guerra e sugli uomini in essa agenti, non poteva restare isolato, non poteva essere vanificato, confuso nell'insieme di tante opere pur dignitose che avevano trattato il medesimo argomento. Gli interessi specifici di Stanley Kubrick dovevano necessariamente portarlo a ripetere il discorso, mettendo in guardia gli uomini, ancora una volta, a non accettare le imposizioni di chi vuole assolutamente scatenare la guerra, una guerra come quella futura che potrebbe provocare senza dubbio la fine di una civiltà.

Ora, proprio per questo Kubrick ha ripreso l'argomento. Tuttavia mosso da altre esigenze, egli ha inteso tornarvi spostando l'angolo visuale. L'occasione gliel'ha fornita un saggio di Peter George, e perciò, mantenendosi a esso aderente, ha avuto facile mano nell'intraprendere in chiave satirica il discorso sulla guerra, e, quel che più conta, su quelli che alla guerra credono come ad una inevitabile risoluzione di tensioni e di lotte internazionali. Da qui il film Il dottor Stranamore.

L'umorismo e la guerra

È chiaro che altro è prendere un argomento di petto, altro è scantonare e conseguire il medesimo risultato; più facile è il primo metodo, più difficile è il secondo. Quasi sempre si arrischia di fuorviare l'attenzione, e di condurre lo spettatore a tralasciare l'idea prima per l'accettazione di un umorismo a sè stante, privo di riferimenti, e molto più dolorosi di quanto non siano nei film, per così dire, “seri”. Il pericolo cui Kubrick è andato incontro è stato proprio questo: far vedere sotto specie umoristica o satirica un tema, in modo da non lasciar adito a illazioni, e tuttavia conservando nello stile quel mordente e quella forza d'urto capaci di colpire lo spettatore.

Ma c'erano anche dei precedenti. C'erano anche altri film umoristici che avevano come argomènto la guerra. C'era, ad esempio, l'illustre precedente d'un Chaplin che in Charlot soldato aveva a suo tempo meditato sulla ridicola posizione degli uomini investiti di potere; c'era Il dittatore che pur affrontava un tema molto vicino a quello del Dottor Stranamore, ma che aveva una dolorante e umana conclusione, tra il patetico ed il poetico; c'erano i film di Buster Keaton, geniali e ricchi di trovate comiche con un loro sottofondo amaro e pessimistico. Di fronte a ciò a Kubrick non rimaneva che insistere sulla caricatura, e nello stesso tempo creare un tipo di film ove la serietà delle idee, trasparisse da un contesto tra il faceto e il drammatico, tra il satirico e il polemico. Per questo motivo il film potrà apparire privo d'un suo equilibrio stabile, e di difficile lettura. Direi che restiamo sconcertati, confusi, e nella nostra mente tentiamo di ricostruirci i diversi passaggi al fine di scoprirne gli ampi riferimenti con personaggi della storia attuale, con situazioni possibili e verificabili sul piano concreto.

[…] Il film si muove, per esigenze espressive e spettacolari, su tre piani diversi. Inizia con il mostrarci il generale Ripper, apparentemente calmo, dare l'ordine agli aerei di partire. Entra poi in azione un colonnello inglese, Mandrake, il quale sospetta della pazzia del generale. E le prime avvisaglie, i primi contatti lasciano supporre che lal tragedia avrà una sua conclusione. Poi l'azione si sposta parallelamente dal Pentagono alla base militare, a un aereo il cui equipaggio sta svolgendo tutte le operazioni indicate dal Piano R la cui applicazione è stata ordinata dal generale Ripper in un ritmo che va mano a mano assumendo articolazioni satiriche molto precise. Il regista però tiene conto che il suo è un passaggio obbligato da posizioni contrastanti a personaggi ancor più contrastanti. E quindi ha necessità di delineare i tipi secondo quello che ciascuno di loro rappresenta ideologicamente c politicamente.

I personaggi

Ecco perciò una galleria di tipi che possono essere sommariamente espressione di mentalità diverse. Il generale Ripper, che sragiona e pare dover dire cose sensate, ossessionato da mania di persecuzione, portato ai limiti della pazzia da ritorni frequenti di concezioni sia derivate da un modo di conoscere la vita, sia dovute alla soppressione nel suo io di un congegno psicologico equilibrato. Tipico atteggiamento ossessivo è quello di ripetere costantemente certe assurde sue teorie sulla vitalità, la certezza di essere una specie di uomo superiore, perchè non contaminato nelle sue “linfe”, nei suoi “fluidi” vitali. Dall'altro canto, stando alla presentazione dei tipi di militari, c'è il generale Turgidson, molto più carente nella sua psicologia, ma peraltro delineato secondo uno schema assai preciso: egli è il tipico esponente di una mentalità militaresca che vede nella guerra non già l'inevitabile conclusione di un conflitto umano, ma un gioco dove la vittoria può arridere a chi arriva per primo a sganciare le bombe. I suoi sforzi per rimediare alla situazione sono poco convinti; egli infatti fa capire che spera dentro di sè che avvenga l'irreparabile per dar quindi modo ai generali di rifarsi dalla soggezione in cui sono tenuti dai politici. È infatti il capovolgimento auspicato da Clemenceau con la celebre frase: «La guerra è un affare molto serio per darlo in mano ai generali».

C'è, poi, il comandante dell'aereo, quello che non avendo intercettato alla fine il contrordine sgancerà la bomba sull'obiettivo prefisso, il quale si sente investito finalmente di una responsabilità e si accolla l'onere con molta leggerezza, tant'è vero che non si rende affatto conto della situazione, ma si lascia condurre da un entusiasmo infantile, come se quella che sta correndo fosse una avventura western, alla quale del resto concede la massima concretezza sostituendo il casco con un cappello da cow boy. lnfine il colonnello inglese Mandrake, che non perde la calma e tenta con la sua astuzia di carpire il segreto. E riuscirà, infatti, dopo che il generale Ripper si sarà suicidato. Troverà infatti nelle iniziali di una frase ripetuta spesso dal generale pazzo, la chiave per ordinare il rientro degli aerei. Accanto a queste figure principali circolano altri militari: un colonnello che ha l'ordine di conquistare la base dove sta asserragliato il generale Ripper, e che dimostra un'ottusità caricaturale; ci sono i soldati che combattono con un certo entusiasmo, puerile anche questo, perchè convinti di contribuire all'abbattimento del comunismo; c'è nell'ambiente militare, insomma, la caratterizzazione di una mentalità diffusa, guerrafondaia e assurda, mascherata da un cartello che il regista ci fa notare presente proprio all'entrata della base atomica a conclusione di un suo discorso molto preciso. Il cartello dice: «La pace è il nostro mestiere»; e nello stesso tempo si vedono soldati mitragliare senza interruzione i presunti “nemici”.

Ma un altro gruppo fa spicco fra i protagonisti. Primo quello del Presidente americano, risolto a macchietta, a uomo privo di nerbo, ma convinto di combattere per l'umanità e per la libertà. E, infine, il dottor Stranamore. È questi, un po', la chiave del film. Stranamore – è evidente la rassomiglianza – è il Von Braun di tutta la vicenda. Scienziato, genio incomparabile, la sua mente è ancor più sconvolta da un latente nazismo, da un sopravvivere veramente eccezionale di alcune teorie razziste e di supremazia che pur manifestate in maniera satirica, lasciano pensare. Le sue teorie sulla necessità di salvare gruppi selezionati di uomini, per cento anni sotto caverne in modo da preservarli da ogni contaminazione atomica, e la sua follia hitleriana di distruzione della razza inferiore per un 'umanità nuova, più forte, più pronta a conquiste tecniche e scientifiche, anche se può apparire velata da una tinta polemica, resta alla base di ogni discorso, resta, in definitiva, la conseguenza ideale del film.

Kubrick si destreggia nello spettacolo, sa alternare la suspense alle reazioni dei vari componenti la opera. […] La materia è tanto vasta, il confronto tra diverse mentalità è così evidente che dal film è facile enucleare la sostanziale prepotenza di una tesi. Stanley Kubrick ha voluto presentare un ambiente, indicandone le carenze. […] Per concludere, si può dire che c'è stato un certo impegno a farci meditare, ancora una volta, sulla necessità di trovare un modus vivendi capace di toglierci dalla pelle quella paura che tutti paventiamo di una guerra atomica nella quale il mondo sarebbe senz'altro restituito al caos.