Mai dire Bond – 007 dalla A alla Z

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La scomparsa di Sean Connery segna la fine di un’epoca cinematografica indimenticabile. Fra i tanti modi che abbiamo scelto per ricordarlo e celebrarlo c'è anche questo alfabeto bondiano a cura di Emanuela Martini apparso su Cineforum 351 del gennaio-febbraio 1996 e che ripubblichiamo per intero.


A, come ASTON MARTIN la leggendaria DB5 metallizzata prediletta da James Bond, che appare per la prima volta in Goldfinger, accessoriata di scudo antiproiettile, radar, schermo fumogeno, mitragliatrici e sedile capace di espellere il passeggero.

A, soprattutto, come KEN ADAM, geniale, stilizzatissimo art director di origine tedesca, cresciuto a Londra, dove ha studiato architettura. Adam ha reinventato per il cinema il gusto ottico degli anni 60. Scenografo dalla metà degli anni 50, il suo talento visivo esplode nel 1963 con l'eleganza asettica del covo segreto del dottor No (una strizzata d’occhio alla fantascienza e una alle riviste di moda) e soprattutto con la scenografia essenziale e delirante della War Room di Il dottor Stranamore di Kubrick. Con Kubrick vince un Oscar nel 1975 per Barry Lyndon. Nel frattempo, ha continuato a immaginare tutte le scenografie dei film di James Bond e quelle del suo alter ego più eccentrico, l’agente Harry Palmer di Ipcress (1965), incrocio paradossale di casalinga quodidianità londinese e incubo psichedelico.

B come ALBERT "CUBBY'' BROCCOLI, una metà del fantastico team che un bel giorno si mise in testa di ridurre per lo schermo le avventure dell’agente segreto di Ian Fleming. 

Nessuno credeva all’efficacia cinematografica di 007, tranne Broccoli e il suo socio Harry Saltzman, che alla fine degli anni 50 aveva coprodotto le prime esperienze nel lungometraggio degli arrabbiati del Free Cinema, I giovani arrabbiati e Gli sfasati di Richardson e Sabato sera, domenica mattina di Reisz. Riuscirono a convincere Fleming a cedere i diritti e, soprattutto, riuscirono a convincere la United Artists a finanziare Agente 007 Licenza di uccidere. L’unico romanzo della serie del quale si lasciarono sfuggire i diritti fu Casino Royale (adattato poi, come un pasticcio internazionale, dalla Columbia, con cinque registi e almeno due James Bond, David Niven e Woody Allen). In compenso, Saltzman e Broccoli produssero anche i film ispirati all’anti Bond per eccellenza, l’agente Harry Palmer, occhialuto, pigro, imbarazzato con le donne e tutt'altro che patriottico, inventato da Len Deighton. Quando nel 1976 la società si sciolse, Broccoli mantenne i diritti per i film di James Bond.

MAURICE BINDER. Non un nome di quelli che stanno in cima ai titoli di testa, ma l’inventore dei titoli di testa, fino a Licence lo Kill (1989). Un tocco immancabile nella saga di Bond, una serie di idee grafiche capaci di combinare sensualità, sensazionalismo e quel tanto di kitsch che rendeva irresistibili i film di 007. lntramontabile e stilizzatissimo, il “logo” con la silhouette dell’agente che compare nel mirino della pistola, si gira e spara. Efficacissima e “seminale”, la sequenza dei titoli di Goldfinger, che indugia su un corpo femminile dipinto d’oro.

E B, naturalmente, come BOND GIRLS, decine di Bond Girls, di solito divise, abbastanza schematicamente, in due categorie: Good Bond Girls e Bad Bond Girls, ragazze buone e ragazze cattive. Più un’eccezione alla regola (Pussy Galore, v.); più le “accessorie”, le tante ragazze che passano e vanno, senza particolare ruolo nella storia, come la prima folgorante bruna in rosso, che  Bond incontra al casinò all’inizio di Licenza di uccidere, con la quale combina un incontro amoroso che va a monte a causa della missione (e che avrebbe dovuto essere un tormentone, poi eliminato, di tutti i primi Bond). Tra quelle che “contano”, invece, indimenticabili, tra le buone: Honeychild Ryder (v.), Tatiana Romanova, delicata, femminilissima spia russa, che si presenta a Bond vestita solo di un nastrino nero intorno alla gola (Daniela Bianchi), Domino, enigmatica come il suo nome (Claudine Auger in Operazione Tuono e Kim Basinger in Mai dire mai), l’americana Tiffany Case (Jill St. John) che in Una cascata di diamanti per un po’ tiene testa a Bond con una bella dose di ironia e opportunismo.

C come «Connery ... Il mio nome è SEAN CONNERY». Non c’è bondiano che non rimpianga il miscuglio di classe/sadismo/sensualità/ironia/nostalgica protervia e soddisfatta crudeltà del primo (e unico) James Bond. Ian Fleming e Terence Young (il regista della prima serie) non erano per nulla convinti della scelta dei produttori: l’agente segreto 007 era un bon vivant, cresciuto ricco in belle scuole, capace di scegliere a colpo sicuro i minimi dettagli dell’abbigliamento e il vino giusto con il pesce (il particolare che tradisce Robert Shaw in Dalla Russia con amore). Sean Connery, invece, aveva guidato il camion, era stato culturista, ballerino di fila, modello (più qualche particina), era nato povero, scozzese e non si era mai sognato di andare in giro con impeccabili completi di Savile Row (marchio dell’eleganza tradizionale britannica). Eppure sullo schermo riusciva a trasmettere quella combinazione di raro snobismo e sensualità animale che avrebbero trasformato 007 in un mito internazionale. Antieroe per eccellenza, Bond (soprattutto nelle prime avventure) uccide senza rimorsi e senza dilemmi morali, fa il suo mestiere “al servizio di Sua Maestà” (e, tutto sommato, sembra ancora crederci), sceglie le ragazze che gli piacciono senza preoccupazioni di coinvolgimenti (e in questo caso anticipa l’approssimarsi della liberazione sessuale anni 60), trasporta il suo aplomb incrollabile nei finti corteggiamenti di Miss Moneypenny, nei colloqui ufficiali con M e negli immancabili scambi di battute con il cattivo di turno. Non si scompone mai, neppure quando un raggio laser lo avvicina, dal basso, a segare in due il suo corpo legato ad una tavola (Goldfinger). Il Bond di Connery non solo, all’improvviso, catapulta tra gli eroi cinematografici un assassino senza nessuno scrupolo e, con grazia felina, lo rende accettabile, ma riassume in realtà quell'impasto di ruvidità e charme dell’antieroe del classico romanzo sette e ottocentesco, l’uomo fatale, “Il Monaco” di Lewis pagato dalla “giusta causa”. Saltzman e Broccoli (di origine, rispettivamente, canadese e italiana) si rivelarono più acuti dei britannici purosangue Fleming e Young: istintivamente capirono che Bond era un eroe del passato, un membro della classe alta che, proprio per questo, poteva permettersi di essere volgare, crudele e impeccabilmente a posto. Poi, con Roger Moore il personaggio si è “alleggerito” con il dinamismo sorridente del Santo e dei Persuaders (Attenti a quei due). Ma senza Connery, Bond non sarebbe mai stato Bond.

lAN FLEMING. Giornalista, ufficiale dei servizi segreti (ma non agente segreto), snob e flemmatico, Fleming scrisse il primo romanzo di James Bond, Casino Royale, nel 1953, nella sua villa in Giamaica. Mescolò i personaggi incontrati nella realtà e ricordi letterari (da Kipling, uno dei suoi favoriti, alle avventure di Allan Quatermain), mentre per il personaggio di 007 si ispirò, per le caratteristiche fisiche, al giocatore di golf Henry Cotton e, per quelle psicologiche, in gran parte a se stesso. In tutto scrisse tredici romanzi e due raccolte di racconti, che ebbero un successo ragionevole, ma tutt’altro che travolgente (fino al primo adattamento cinematografico). Prestò un'attenzione cortese e interessata ai film, anche se non si fece mai veramente coinvolgere. Dopo la sua morte (per un attacco cardiaco, nel 1964), altri autori hanno scritto altri sei romanzi di 007.

HONEY RYDER. Le spetta di diritto un posto di primo piano, non solo perché è la prima Bond Girl dello schermo, ma anche perché è l'unica ad aver trasformato la sua interprete in una star internazionale. Uno shock per l’immaginario maschile dell’epoca: Ursula Andress che esce dall’acqua canticchiando, con il bikini bianco e il pugnale in mano (e, in un momento di suprema ironia kitsch, James Bond dal suo nascondiglio si unisce al canto). Nel 1961 la Andress era una starlet sconosciuta. La stessa fortuna non è mai più toccata a nessuna delle ragazze di Bond; e nessuna, probabilmente, ha più avuto lo stesso impatto erotico.

JOHN FITZGERALD KENNEDY: in un intervista a «Life» il presidente aveva indicato «Dalla Russia con amore» tra i suoi dieci romanzi preferiti. Saltzman e Broccoli si affrettarono perciò a metterlo in cantiere come seconda avventura cinematografica di Bond. E Fleming, lusingato, mandò a Kennedy copie autografate dei propri libri.

ROSA KLEBB. Merita una citazione a parte: l’unica donna della serie Bond che accetta di essere veramente brutta, sgradevole, antifemminile, ma non asessuata (le sue avance a Daniela Bianchi sono quasi esplicite). Non uccide, come la nuova cattiva di Goldeneye, stritolando gli uomini durante l'amplesso, ma colpendoli con un pugnale micidiale, imbevuto di veleno che scatta fuori dalla sua scarpa tozza. Uno degli agenti più pericolosi della Spectre e uno dei personaggi veramente memorabili delle serie, interpretata da Lotte Lenya, donna di gran classe e gran cultura e massima interprete brechtiana, in Dalla Russia con amore.

LE CHIFFRE, cattivo torreggiante e sornione che sfida al tavolo di baccarat non Bond ma Evelyn Tremble, giocatore esperto che finge di essere 007: Orson Welles contro Peter Sellers in Casino Royale. In realtà, Welles a parte, i Grandi Cattivi sono una delle migliori attrazioni della serie (e una sfida per qualsiasi attore), intelligenti, diabolici, con un senso dell'ironia tanto perverso da sfiorare l’autolesionismo. A partire dall'ascetico dottor No di Joseph Wiseman (una parte per la quale Fleming avrebbe voluto il proprio vicino di casa in Giamaica, Noel Coward, che rifiutò), i “geni del male” hanno seminato follia, istrionismo e inventiva. Sono loro, in realtà, che ravvivano sempre con le loro psicopatie e i loro complotti apocalittici la sequenza ripetitiva degli eventi. Goldfinger, gentleman impeccabile ossessionato dall’oro, cui Gert Froebe conferisce un’indimenticabile, teutonica mania di grandezza; il Largo di Adolfo Celi (Operazione tuono), dai toni felini e minacciosi; L’uomo dalla pistola d’oro, Scaramanga, anti-Bond impeccabile e oscuro interpretato da Christopher Lee. E, naturalmente, tutti i Blofeld. Il gran cervello che sta dietro la Spectre resta nell’ombra, solo una mano che accarezza un gatto persiano, fino a Si vive solo due volte, quando prende il volto deturpato e gli accenti isterici di Donald Pleasence: nessun confronto fisico con Bond, solo una devastante megalomania. Poi, il ruolo passa a Telly Savalas (Al servizio segreto di Sua Maestà), che compete salottiero e aggressivo con Bond, e a Charles Gray (Una cascata di diamanti).

M come M, il capo di Bond, impeccabile, impassibile, paziente. Bernard Lee, dal 1963 al 1979 (l’anno della sua morte), sostituito, da Octopussy a Licence to Kill, da Robert Brown, e da Judi Dench in Goldeneye: M come lady Macbeth, un bel colpo al maschilismo vecchio stampo.

NIVEN, David: nelle intenzioni e nelle fantasie di Fleming, era proprio David Niven il James Bond per eccellenza. Il che la dice lunga sulla concezione che l’autore aveva del suo personaggio; meno prestante, più “signore”, impagabilmente più ironico, ma infinitamente meno sensuale. Niven il commediante, il gentleman, quasi un “Nostro agente all’Avana” upper-upperclass. E venne il giorno in cui Niven fu Bond, nel gran casino comico di Casino Royale, dove le carte, le fisionomie, le tracce narrative si confondono, dove tutti giocano agli agenti segreti e nessuno si preoccupa veramente di impersonare Bond (tranne Jimmy Bond, occhialuto, megalomane, basso, Woody Allen che farnetica sulla Smersh). Però, se pensiamo per un momento a sir George Lytton, ladro gentiluomo e inguaribile, cortese donnaiolo nella Pantera rosa, riusciamo a cogliere quanto c’era in fondo di azzeccato nell’ipotesi di Fleming. Niven sarebbe solo stato un Bond diverso.

ODDJOB. Harold Sakata, campione di wrestling, in Goldfinger. È tozzo, grasso, muto, ma quando prende in mano la bombetta e la lancia diventa un assassino micidiale, solo uno dei tanti psicopatici al servizio del Grande Cattivo, che repentinamente appaiono e scompaiono nei film di Bond. Di solito, caratterizzati da una particolare, maniacale maniera di uccidere. Indimenticabili: Jaws (Richard Kiel), il gigante con il sorriso acuminato e mortale di La spia che mi amava e Moonraker, e Red Grant, l’assassino biondissimo della Spectre che nasconde un mortale filo d’acciaio nell’orologio da polso. Una presenza sgradevole che circola minacciosa lungo Dalla Russia con amore e che (quasi) riesce a ingannare Bond, fingendosi, sull’Orient Express, il suo agente di collegamento. L’interprete era Robert Shaw, che fino ad allora era noto soprattutto come intellettuale, scrittore e commediografo.

PUSSY GALORE. Forse la Bond Giri più atipica: bionda, atletica, al comando di una pattuglia di aviatrici virago al servizio di Goldfinger, capace di rispondere alle attenzioni di 007 con una mossa di karate, diventa poi l'alleata di Bond. Honor Blackman è l’unica ragazza della saga che concentra in se stessa le caratteristiche positive e negative delle eroine bondiane: fisico da pin up e addestramento da combattente, sbrigativo senso dell’umorismo, cinismo evidente e una lealtà di fondo, non ha bisogno di essere protetta e “salvata”. Un bel match per Bond.

Q come Q, un concentrato di bizzarria tecnologica ed eccentricità personale, che inventa, costruisce e perfeziona con sorridente amabilità tutte le armi e i  gingilli pericolosi che poi salvano la vita a Bond. Immancabile, prima di ogni missione, la puntata di Bond nel regno di Q e lo scambio di battute paradossali e vagamente stizzose. Interpretato da Desmond Llewelyn, appare per la prima volta in Dalla Russia con amore e da qui in avanti comincia a maturare un’evidente animosità verso Bond, che considera sempre con una certa supponenza le sue invenzioni.

R come RAGAZZA DIPINTA D’ORO, una delle morti più celebri dei film di Bond. Shirley Eaton, abbandonata là, come uno splendido regalo (e un monito) luccicante sul letto di Bond. E dire che all’inizio di Goldfinger, pareva la Bond Girl di turno, destinata, alla fine del film, a condividere il meritato riposo dell’agente. La sua immagine apparve sulla copertina di «Life» e ha innuenzato le fantasiose allucinazioni dei titoli di testa di molti film successivi.

SEQUENZA D’APERTURA. La ciliegina sulla torta per tutti gli appassionati bondiani: una bella azione pirotecnica che precede i titoli di testa, meglio se non c’entra niente con l’avventura successiva. È con il terzo film, Goldfinger, che la sequenza pre-titoli diventa un marchio di fabbrica: Bond esce dall’acqua in tuta da sommozzatore, se la sfila e sotto indossa lo smoking con tanto di garofano all’occhiello; va in un bar e aspetta l’esplosione della bomba che ha appena piazzato. In pochi minuti, la quintessenza delle avventure e della psicologia del personaggio, implacabile, autoironica, impassibile, inevitabilmente blasé. Citazione d’obbligo anche per la sequenza nella quale James Bond viene strangolato, di notte, in un giardino: ma era solo un finto Bond, con una maschera di gomma, che serviva per le “esercitazioni pratiche” del temibile Robert Shaw in Dalla Russia con amore.

TANGO. Uno, lungo, figurato, impeccabile, fuori moda, danzato da Sean Connery nel suo ultimo, tardo Bond, Mai dire mai. La partner sinuosa è Kim Basinger e naturalmente non sa resistergli. Dieci anni dopo, anche Schwarzenegger e la moglie Jamie Lee Curtis ballano il tango in True Lies.

UMORISMO. Ne circola tanto nei film di Bond, anche se evidentemente la marca è diversa a seconda degli interpreti e degli anni. Il sense of humour di Sean Connery è segnato da un evidente sadismo. Gli scambi di battute con i cattivi sono sempre alla pari e quelli con le donne sempre allusivi (famosa, in Una cascata di diamanti, la battuta rivolta a Jill St. John che lo affronta in bikini e con la pistola in mano: «Temo che mi abbia sorpreso con più delle mani alzate»).

V come VODKA, quella per il Martini, «shakerato, non mescolato», un’autocitazione irresistibile quasi quanto «ll mio nome è Bond... James Bond». In realtà, sembra che il Martini Vodka shakerato sia un’aberrazione, perché l’alcool si intorbida. Ma a Ian Fleming piaceva così.

W come WALTHER PPK, non la pistola preferita da Bond, che usa una Beretta (liquidata da Q come «una pistola per signore»), ma quella con cui viene riequipaggiato all’inizio di Licenza di uccidere. Con il silenziatore innestato, entra a far parte del “logo” bondiano.

TERENCE YOUNG. Il primo regista di Bond, ha diretto Licenza di uccidere, Dalla Russia con amore, Operazione tuono; poi ha passato la mano a Guy Hamilton e Lewis Gilbert. Non necessariamente più dotato degli altri registi che lo hanno seguito, tuttavia Young (classe 1915) condivideva molti dei gusti, dei tic e dei tratti socio-culturali di Ian Fleming e ha certamente contribuito alla caratterizzazione del primo Bond.

Z come ZERO ZERO SETTE, sigla misteriosa che, secondo i biografi di Fleming, poteva derivare, alternativamente, da ricordi dell’attività nel servizio segreto o dal titolo di un racconto di Kipling, appunto «007», il nome di un locomotore. Quanto a Bond, James Bond ahimè, nulla di eroico, ma il nome dell’autore di un libro che Fleming apprezzava molto: La guida definitiva degli uccelli delle Indie Occidentali.