Sostiene Pedro Macau

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Nel settembre di venticinque anni fa, dopo essere stato presentato al Festival di Cannes dello stesso anno, usciva nelle sale italiane Viaggio all'inizio del mondo di Manoel De Oliveira. Come osserva Bruno Fornara all'inizio della sua scheda, pubblicata su «Cineforum» n. 368, novembre 1997, fra le altre cose il film è anche un curioso gioco delle parti: Marcello Mastroianni (nella sua ultima, sensibile e sorniona interpretazione) interpreta un regista che ha molti dei tratti di De Oliveira (maglione e cappello compresi), mentre lo stesso De Oliveira è l'autista che accompagna in giro per il Portogallo lui e un paio di attori del film che sta realizzando, alla ricerca delle origini di uno di loro. Viaggio all'inizio del mondo è un'opera che, come l'automobile su cui essi viaggiano, va sempre avanti guardandosi indietro, con un “convitato di pietra” (Pedro Macau, statua popolarissima in Portogallo) che ci dice molto della nostra condizione, da dove veniamo e dove andiamo.


Nel groviglio del tempo

A metà strada tra la città, che è il mondo di adesso, e il paese di Lugar do Teso, che sta all'inizio del mondo, fra le montagne, il vecchio regista Manoel, che è Marcello Mastroianni vestito con maglione e cappello a tesa larga come di solito si veste Manoel De Oliveira che è il regista (e l'autista) di questo Viaggio all'inizio del mondo, porta i suoi compagni di viaggio a cercare una statua che si ricorda di aver visto nella sua infanzia. È la statua di un uomo che sta con un ginocchio poggiato a terra, come schiacciato dal peso della pesante trave che tiene su una spalla. La statua ha un nome, Pedro Macau, e le è stata anche dedicata una poesia: «Eu sou o Pedro Macau / Que as costas tem um pau. / Passa por aqui muito patego. / Uns de focinho branco, / Outros de focinho negro. / E ninguem me tira deste degredo» (Sono Pedro Macau e sulla schiena porto una trave. Molta gente passa di qui. Qualcuno con il muso bianco altri col muso nero. E nessuno che mi solleva da questo tormento). (Le statue piacciono a De Oliveria: per stare agli ultimi film, in Il convento, c'e il bassorilievo di un monaco che tiene in una mano una frusta per flagellarsi e nell'altra una candela, la luce della fede; in Party, nella villa, ci sono statue di angeli.) Alla fine del film, Afonso, l'attore francese che ha voluto tornare al paese di suo padre, si sta preparando per girare una scena. È truccato come Pedro Macau, si appoggia sulla spalla il cappello nella posa della statua, ne ripete la poesiola e quando viene raggiunto in camerino dagli amici e dal regista si rivolge a Manoel (Mastroianni-De Oliveira) con queste che sono le ultime parole del film e le ultime rivolte a Mastroianni in un film: «Anche tu, Manoel, sei un altro Pedro Macau e nessuno ti solleva dal tuo tormento».

Viaggio all'inizio del mondo è l'ultimo film interpretato da Marcello Mastroianni e a lui è stato dedicato da Manoel De Oliveira che l'ha voluto come attore nella parte di un vecchio regista che si chiama Manoel e che non ha nessuno che possa sollevarlo dalla sua pena. Manoel De Oliveira compie l'anno prossimo novant'anni. Mastroianni se n'è andato poco tempo dopo la fine del film. Film di un grande attore malato e di un grande vecchio regista, Viaggio all'inizio del mondo non è up film testamento e non è neppure un'opera triste e mesta. È un film commovente e sereno: forse perché non guarda avanti dove non c'è molta strada da compiere, ma indietro, dove di strada ce n'è tanta, prima di ritornare all'inizio del mondo.

Padroneggiare il caos, eliminare il superfluo

Bastano due inquadrature di un qualsiasi film di De Oliveira per capire che tutto ciò che è inutile è stato eliminato: «Nel cinema americano, per metà del film, si vede una macchina che va da una parte, poi la porta si apre, l'attore passa nel corridoio, poi va in un ufficio dove ci sono molte segretarie, entra e finalmente dice buongiorno. Per dire buongiorno bisogna fare tutto questo. E questo è cinema con del movimento. È un altro stile. È per questo che io invece amo molto Dreyer o Buñuel» (sempre sul «Positif», citato). Così, all'inizio di Viaggio all'inizio del mondo, ci vuole poco per entrare in quello che i francesi chiamano, con parola indisponente, fredda e meccanica il dispositivo del film: una frase di Nietzsche in apertura, «Diventare padroni del caos che si è»; una musica atonale e caotica; i titoli su fondo rigorosamente nero; la dedica a Mastroianni; l'asfalto della strada con la riga bianca della mezzeria·e Mastroianni-Manoel che comincia a parlare, in macchina, con gli altri attori-personaggi. L'operazione di eliminazione dell'inutile riesce con facilità, in ogni film, a De Oliveira. Se è complicato padroneggiare il caos che si è, sembra che a De Oliveira riesca benissimo di padroneggiare il caos di elementi che è un film. Semplicissima è la messa in posa dell'impianto narrativo: in macchina viaggiano il vecchio regista Manoel, un'attrice e un attore portoghesi, Judite e Duarte, un attore francese, Afonso, che torna al paese da cui suo padre, sans papiers d'altri tempi, è partito emigrante sessant'anni fa (e alla guida della macchina c'è Manoel De Oliveira, che appare, qua e là, sullo sfondo, a curiosare, durante la sosta all'hotel in rovina).

Il film è diviso esattamente in due: prima c'è il film di Manoel, poi quello di Afonso. Prima, il vecchio regista accompagna gli amici a vedere i luoghi della sua infanzia: il collegio dei gesuiti, a Caminha, dove ha studiato; la statua di Pedro Macau; l'hotel in rovina dove trascorreva le vacanze. Poi, comincia l'altro film: Afonso, giunto all'inizio del mondo, ritrova Maria Afonso, la sorella del padre. Questo il dispositivo, come sempre sobrio ed efficace, un meccanismo a due ante, già adottato con successo da De Oliveira nei Cannibali (prima un lento mélo, poi una scatenata farsa macabra) o in Party. Poi c'è il resto: perché, messo in posa il congegno, lo si fa funzionare e lo si guarda mentre funziona. Tema della rappresentazione, nel primo dei due blocchi che compongono il film, è il ritorno a un tempo che non esiste più, ritorno che avviene grazie alla parola, alla conversazione educata e colta tra Manoel, Judite e Duarte, mentre Afonso sta piuttosto defilato e aspetta che il film giri la boa di metà percorso per prenderne la guida. Tema della rappresentazione, nel secondo dei due blocchi, è la scoperta del mondo all'inizio del mondo, nel paese tra le montagne.

Al mondo si può dunque guardare in più modi: del mondo si può parlare in automobile, mentre il mondo scorre via, allontanandosi e perdendosi all'indietro; nel mondo, quello fisso degli inizi, si può tornare a immergersi, sia pure con una certa fatica. Si lascia un regime di conversazione mondana sulle cose perdute del passato e si entra in un mondo fermo nel passato dove conversare è difficile perché non si parla la stessa lingua (la zia non si capacita che il nipote non parli portoghese). Ci sono, per i quattro viaggiatori, due passati nel film: quello di Manoel (il collegio, la statua, l'hotel) che può ritornare soltanto nelle parole e nella malinconia del ricordo, nella saudade; poi, c'è il passato di Maria Afonso, che continua a essere il suo presente perché è l'eterno presente di un mondo fisso, rigido e solido, di pietra, fuoco e pane. Da un regime di conversazione mondana che cerca di resuscitare un passato perduto si passa a un altro in cui più della parola valgono i gesti (lo stringersi le mani, il dono del pane, l'inginocchiarsi su una tomba), in cui il passato è quasi indistinguibile dal presente. Il mondo che sta all'inizio immobile del mondo è oscuro, ctonio, cimiteriale: è il mondo dell'arché, del principio, dove più che la parola, valgono il sangue, la morte, la pietra. Al principio non è il verbo.

Viaggiando verso gli inizi del tempo e poi tornandone indietro, vengono messe a confronto le rappresentazioni del mondo. Da una molto mondana e affidata all'eleganza della parola, si passa ad un'altra, forte e fissa, per finire, molto brevemente, con una terza che è rappresentazione vera e propria. Nell'ultima scena, l'attore Afonso si veste come Pedro Macau, porta sulla spalla il peso del suo cappello e ricorda a Manoel come il tormento, quello leggero e metaforico di un cappello che richiama una trave, quello pesante della morte che è in noi, non può esserci tolto da nessuno. In questo, nel peso che si porta sulle spalle, il mondo che sta all'inizio e il mondo che sta nell'adesso si rassomigliano. Ma qui, il peso viene mascherato dalla conversazione leggera e da un cappello che non è una trave; là, morte e vita conservano tutta la loro pesantezza e presenza. Non sono così distanti come sembrano questo mondo e l'inizio del mondo: c'è tra di essi la distanza che passa tra il vivere imbrigliando e velando la fine che viene sotto la conversazione che ricorda il passato e il vivere nel tempo immobile con la morte per compagna come vive la zia (per la quale recarsi al cimitero è un rito che richiede ci si cambi d'abito). Il viaggio aiuta a scoprire la vicinanza e la lontananza dei due mondi. Viene in mente il T.S. Eliot dei Quattro quartetti: «We shall not cease from exploration / and the end of all our exploring / will be to arrive where we started / and know the place for the first time». Non smetteremo di esplorare e il fine di tutto il nostro esplorare sarà di giungere al punto da cui siamo partiti e di conoscere il posto per la prima volta.

Conoscere non è dunque un problema di progressione, di avanzamento. La strada che la macchina dei viaggiatori percorre non la vediamo mai davanti a noi: la macchina da presa guarda sempre indietro, verso la strada che lasciamo alle spalle. De Oliveira crede nel ritornare, non nell'andare. Tra parole e cose, presente e ricordi, reale e rappresentazione, fatuità e rito, il rapporto si istituisce lungo la freccia di un tempo che non corre in avanti. È Duarte a dire, con parole sibilline, il groviglio del tempo: «Un temps qui sépare un autre temps qui, avec le temps, devient maintenant présent» (Un tempo che separa un altro tempo che, col tempo, diventa ora presente). Il rimedio parziale, che almeno un poco allevia le ferite del tempo e la distanza dalle cose, per chi vive lontano dagli immobili inizi del mondo, è la parola. Nel film di Manoel, tutto è distante: il mondo scappa via all'indietro fuori dall'automobile; del passato restano tracce lontane (il collegio di là dal fiume che si guarda con il binocolo) o in rovina (l'hotel). Solo con la parola si riesce a ritrovare un qualche rapporto con le cose e il passato. E cose, luoghi e persone non sono semplicemente quello che sono ma richiamano altre cose, storie, considerazioni: a questo mondo si accede in modo mediato, mai diretto, sempre attraverso forme culturali. Nel conversare, ci si può rifare alla Bibbia: il nome di Judite richiama la storia di Giuditta e Oloferne; o alla storia: la conquista romana e il medioevo della città fortificata; o insieme alla geografia e all'etimologia: i fiumi Minho e Douro che è fiume d'oro; alla cultura popolare: la statua e la poesia di Pedro Macau; persino alla zoologia: i cani allevati a Castro Laboreiro sono molto selvaggi perché incrociati con i lupi della montagna. Anche il sentimento del ricordo viene definito attraverso la letteratura: la saudade è detta con le parole di un poeta brasiliano, Catulo Searence. «Saudade é a terra caida / de um coraçào que sonhou» (La saudade è la terra franata di un cuore che ha sognato). Tra le cose e il nostro accostarle e dirle, nel film di Manoel, c'è lo spazio della cultura e della storia, dell'erudizione e dell'enciclopedia, anche delle diverse lingue, il francese e il portoghese. C'è invece, nel film di Maria Afonso, all'inizio del mondo, la sensazione che tra le persone e le cose la distanza non esista e che la lingua e le parole siano d'intralcio. È forse questa la ragione per cui il primo film, quello del parlare delle cose attraverso ciò che la cultura e le parole le fanno essere, è imbrigliato e scandito dal susseguirsi delle ripetute e lente inquadrature della strada, come se tutto sfuggisse e scivolasse via; mentre il secondo film è composto di primi piani, di quadri fermi di volti e cose perché all'inizio del mondo le cose sono come sono, come si vedono e non come si dicono. Al film del muoversi fittizio segue il film dell'immobilità e della durezza. A Lugar do Teso, anche i nomi di quelli che vi abitano sono uguali: tutti si chiamano Afonso, come il primo re del Portogallo, Afonso Henriques (1142-1185), di cui tutti si dicono discendenti.

I due mondi e tempi, quello immobile degli inizi e quello della storia e della cultura non sono senza relazioni. A metterli in comunicazione sono le guerre. Dice Maria Afonso che le guerre non finiscono mai e che, in occasione delle guerre, il mondo si ricorda di chi sta agli inizi del mondo, e le persone vengono costrette a partire per combattere, come quel Milhòes, portoghese di Vila Real o di Murça, che, sulla Marna, salvò migliaia di francesi, sparando dall'alto di un albero con una mitragliatrice sui tedeschi. E poi, altre guerre, quella di Spagna, quelle delle colonie, e oggi quelle di cui Maria Afonso sente parlare (non alla televisione che è per lei strumento del diavolo), in Croazia, in Africa. Dall'inizio del mondo ad oggi, persistono le guerre. Il tempo in movimento della storia viene a depredare di uomini il tempo fermo dell'inizio. De Oliveira, nell'introduzione al libretto con i dialoghi del film, dice di aver ascoltato da un amico la storia del vero Afonso e di esserne stato colpito: «Questa semplice storia mi fece molta impressione perché vedevo in essa un legame con ciò che succedeva nei conflitti dell'Est, in Cecoslovacchia, in Ungheria, in Cecenia, una sorta di ritorno alle radici, che si intravedeva in questi movimenti. Ero scioccato dalla violenza di questi conflitti, talmente contraddittori che li trovavo quasi surrealisti, in particolare a Sarajevo. Due o tre generazioni erano passate dopo la rivoluzione bolscevica. Gli autori di questi conflitti non erano gli uomini del tempo della rivoluzione. Quelli di oggi appartenevano a una terza generazione, erano i nipoti o i pronipoti della rivoluzione bolscevica, il che prova che, in sostanza, nazionalismi o religioni o etnie non erano morti nel frattempo. Al contrario: ritornavano alla superficie con estrema violenza, come la realtà ci ha mostrato in occasione degli avvenimenti inattesi che hanno seguito la dissoluzione del blocco sovietico. Sembra dunque che sussista, vorrei dire, un “ordine” atavico in cui le etnie, mai estinte, restano oscuramente come addormentate sul fondo del nostro essere. Ho allora capito che l'avanzare di questo “ordine” avveniva per vie sotterranee e si trasmetteva nel sangue e nella memoria, nutrendo questo lungo cordone ombelicale che, con le sue differenti ramificazioni, ci lega alle origini dell'umanità. Non sarà, per caso, questo che ci conduce, nel corso del tempo, a dei concetti molto forti come quelli di tradizione e di evoluzione, che la natura ha reso compagni di strada?». È tornando all'inizio del mondo che si può capire il mondo di adesso. E si resta sospesi: bisognerà pensare che il mondo dell'inizio è un mondo a cui tornare, o da abbandonare, o da visitare di tanto in tanto? È preferibile vivere in un mondo in cui la parola e i ricordi ci allontanano dalle cose ma tengono a bada la forza degli atavismi piuttosto che in un mondo in cui le cose, troppo vicine, si impongono con la loro prepotente presenza?

La domanda fa da trave portante in tanti lavori di De Oliveira. Che sta già lavorando a un altro film, che forse darà altre risposte, o riproporrà la domanda. Il titolo è Inquietudine. Una specie di favola, ambientata negli anni 30. Sono «tre storie diverse raccontate come fossero una sola». Quali altri registi nella storia del cinema hanno avuto e hanno, a novant'anni, la carica e l'inventiva del giovane Manoel?